CONSIDERAZIONI SULLA RIFORMA DEGLI ENTI LOCALI di Paolo Mugoni


Premessa

Quando si pensa di disegnare un sistema istituzionale occorre sempre tenere a mente che non si tratta di mero esercizio di ingegneria istituzionale astratto ma occorre sempre partire dalla realtà, dai bisogni che esprime una società, dalla sua storia, dalle condizioni economiche, da come si attua la “governance” dei processi economici e sociali. Dopo, aver valutato questi aspetti, solo dopo, si può pensare di disegnare un sistema istituzionale. La Sardegna in questo non può e non deve essere diversa rispetto a una istituzione indipendente, che ha in sé piena sovranità territoriale, politica ed istituzionale. L’analisi profonda del luogo dove troverà applicazione il corpus di norme che si andrà a varare non deve essere un modello che avrà breve vita, e sarebbe ottimale riuscire a pensarlo come se si stesse organizzando uno Stato indipendente piuttosto che una diramazione amministrativo-politica, per quanto speciale, di uno Stato. Ecco perché prima di andare a fare una analisi sistematica della legge regionale n. 7 del 2021 (con modifica legge 2/2016 e della legge n.9/2006) sul riassetto degli Enti locali, appare utile fare una breve storia delle dinamiche sociali, politiche, economiche e demografiche della Sardegna degli ultimi 70 anni, non trascurando altresì di volgere lo sguardo ad alcuni accadimenti legati a parti salienti della storia delle comunità sarde.


Brevi cenni storici/economici/sociali/demografici

Proiettiamo il nostro sguardo sugli anni ’50, quando l’economia era poco più che una economia di sussistenza, tipica dei paesi sottosviluppati, e la ripartizione di occupati per settore economico era completamente differente rispetto a quella attuale. La Sardegna di quegli anni era una società povera, dove l’occupazione maggiore si aveva in agricoltura, una attività, nella maggioranza dei casi di mera sussistenza, che lasciava in povertà una larga parte della società rurale sarda; questo il quadro sintetico della situazione: nel 1951 su 1.276.023 di abitanti gli occupati erano 450.800;  230.000 (51,02%) erano impiegati nell’agricoltura, 94.600 (20,98%) nell’industria (che[i] ricomprende anche l’edilizia e il settore minerario),  94.800 (21,03%) nei servizi e  31.400 (6,97%) nella Pubblica Amministrazione. Come si può osservare c’era una ripartizione della forza lavoro in preponderanza dedicata ai lavori agricoli e negli altri settori economici e una bassa percentuale di occupati nel settore terziario e nel pubblico impiego. In quegli anni la Sardegna inizia a mutare e l’economia si trasformava anche attraverso l’infrastrutturazione (teniamo presente che in quegli anni viene istituita la Cassa per il Mezzogiorno ( 1954)  che in Sardegna, tra le altre cose, darà luogo al sistema idrico Flumendosa, ad altre opere di raccolta delle acque e di irrigazione delle campagne ed ad una rete di strade che faciliterà l’accesso ai terreni agricoli. Questa trasformazione però rimarrà incompiuta anche a causa delle scelte fatte dalla classe politica sarda che, in ossequio ai partiti italiani di appartenenza, che scelsero per il Mezzogiorno e la Sardegna il modello dei poli di sviluppo industriale, sposa in toto gli indirizzi economici centrali abbandonando il cosiddetto “Piano verde”, ovvero il modello di Piano di Rinascita elaborato in Regione, che indirizzava gli investimenti del Piano all’ammodernamento del sistema agricolo isolano. Possiamo affermare che con queste scelte, che si dimostreranno negli anni cruciali, si passa repentinamente dalla speranza di sconfiggere il sottosviluppo al determinare invece una forte dipendenza (maggiore di quella già esistente che era già considerevole) dell’economia sarda da fattori esogeni. Non solo non si perviene ad una economia sviluppata ma al sottosviluppo si sovrappose anche la dipendenza. Questo tipo di scelte determinò una forte emigrazione dalle campagne verso le regioni del Nord Italia e verso l’estero. Se da un lato una grande massa di lavoratori si sposta fuori dalla Sardegna (oltre alla crisi nelle campagne va tenuto in considerazione  il crollo del comparto estrattivo nel Sulcis Iglesiente e negli altri siti minerari dell’isola) dall’altro lato in quegli anni inizia una urbanizzazione molto consistenze che porterà le due principali città sarde ad un exploit demografico: Cagliari passa da 130.000 abitanti nel 1951 a 219.000 nel 1981, raggiungendo il suo culmine storico, Sassari passa da 69.000 abitanti nel 1951 a 118.000 nel 1981.  

La situazione attuale, specie per l’area metropolitana di Cagliari, si manifesta con una crescita abnorme della popolazione nei comuni limitrofi, con una riduzione importante di residenti nella municipalità del capoluogo a causa della riconquistata autonomia di alcune comunità (Monserrato, Elmas, Quartucciu e Selargius). Una crescita enorme che produrrà nel tempo una forte terziarizzazione dell’economia (in particolare nel settore pubblico) ed il raggiungimento di oltre 420.000 abitanti nell’area metropolitana. Sassari al contrario, dopo la forte crescita, inizia una fase in cui si stabilizza il numero degli abitanti, si registra infatti una crescita fisiologica della popolazione che passa da 118.000 abitanti nel 1981 ai 123.000 attuali. Se escludiamo gli immigrati possiamo affermare che oggi Sassari non cresce più, ma anzi vede diminuire il numero dei suoi abitanti. Le cause di questa differenza possono essere spiegate attraverso delle semplici constatazioni: il modello di sviluppo economico di Sassari basato principalmente sul settore petrolchimico (un tessuto produttivo industriale autoctono, medio e piccolo  esisteva anche prima della SIR a Porto Torres, ma non produsse la crescita demografica che portò Sassari a raddoppiare quasi i propri abitanti nell’arco di un trentennio, vedere a questo proposito gli studi di Sandro Ruiu), all’atto del suo declino inizia una palese crisi di sistema e se sopravvive è per l’importanza crescente che riveste il settore dei servizi (pubblici e privati) capace però solo in parte di compensare la perdita del settore industriale. La rinata attenzione verso il comparto agricolo (la Nurra) ed il turismo non assumono, ad oggi, quella dimensione capace di invertire il declino. 


Breve storia del quadro istituzionale

Nel 1962 viene istituto, presso l’Assessorato alla Programmazione, il Centro regionale di Programmazione; “il Centro opera in stretto legame con la Presidenza della Giunta e collabora alla predisposizione del Piano di intervento e dei programmi finalizzati alla realizzazione degli obiettivi dello sviluppo economico e del progresso sociale dell'Isola”, in definitiva nasce come supporto tecnico per la realizzazione del primo piano di Rinascita redatto tramite la legge 588/62. Si individua altresì, all’articolo 1 comma 2 la ripartizione della Sardegna in “zone omogenee” che serviranno a predisporre i programmi ed i piani annuali e pluriennali “in aderenza” ad essi. Per la prima volta in Sardegna si individua un ambito territoriale che va oltre quello provinciale, le zone omogenee saranno uno strumento del Piano e saranno solamente una ripartizione funzionale alla sua elaborazione. Nel 1972  si istituiscono le Comunità montane con lo scopo di “governare” il territorio montano in riferimento a finanziamenti europei e statali per la montagna, di fare programmazione dal basso, di progettare ed eseguire opere di interesse territoriale e gestire i servizi consortili. Il quadro si completa nel 1974 con l’istituzione dei Comprensori che, a parte qualche competenza e finanziamenti legati specificatamente agli ambienti montani e pedemontani, avranno la stessa modalità di costituzione e gli stessi compiti delle Comunità Montane. Nel 2005 avviene la riforma degli Enti locali sardi con la legge n. 12 dove si riducono notevolmente le Comunità Montane (indicativo di una interpretazione estensiva avvenuta in Sardegna di questo ente è la Comunità  Montana Riviera di Gallura) arrivando al numero odierno di cinque e si istituiscono le Unioni dei Comuni, con il compito dichiarato esplicitamente di una “razionalizzazione” nella gestione delle risorse e la costruzione di una serie di servizi erogati precedentemente a livello comunale ed ora passati nelle competenze della Unione. Nel 2016 viene fatta l’ennesima riforma attraverso la legge di riordino degli enti locali n. 2 (la cosiddetta legge Erriu, dal cognome dell’Assessore agli Enti locali che la predispone), che introduce la novità della Città metropolitana di Cagliari, della Rete metropolitana di Sassari, abroga le quattro provincie di emanazione regionale e “tenta” di abrogare anche le quattro provincie storiche in virtù del fatto che si dava per scontata l’approvazione del referendum confermativo sulla riforma costituzionale fatta dal governo Renzi. Il referendum governativo, come sappiamo, non passerà e le Provincie precipitano in un limbo di indeterminatezza, commissariate e quasi senza fondi, hanno funzionato fino ad oggi solo con gli avanzi di bilancio. È con l’approvazione della legge proposta dall’Assessore sardista, Quirico Sanna, che si arriva all’attuale assetto degli Enti locali. Si costituiscono due città metropolitane, Cagliari e Sassari, si ripristinano le province regionali e si prevedono le Unioni di Province, ovvero un’aggregazione di un numero massimo di tre province.



   

Su questa breve ed incompleta ricostruzione degli accadimenti dei settanta anni presi in considerazione e del quadro istituzionale degli Enti locali, si innesta il disegno istituzionale sardo, la sua evoluzione e la riforma/riassetto attuale. Il legislatore oggi si trova in questa situazione: forte antropizzazione nelle aree urbane di Cagliari, Sassari ed Olbia, una ordinata e fisiologica crescita della città di Nuoro e della città di Oristano. Una diminuzione di popolazione costante nella città di Carbonia ed un leggero calo nella città di Iglesias. Una crescita costante nei centri costieri (in controtendenza Alghero che, negli ultimi cinque anni ha perso circa 2000 abitanti e Bosa che perde qualche centinaio di abitanti rispetto al suo massimo storico). Insomma, in settant’anni abbiamo assistito ad un cambiamento notevole della demografia della Sardegna e non solo, anche la sua economia è notevolmente mutata ed oggi i comparti produttivi più dinamici ed a più alta crescita annua sono il terziario, il turismo ed in misura minore il comparto agricolo. Di contro in questi anni si è aperta una sorta di catastrofe demografica nelle zone interne con moltissimi paesi che hanno dimezzato la loro popolazione e che rischiano la scomparsa. Su questa situazione leggendo la riforma/riassetto del sistema degli enti locali sovvengono alcune domande:

 

La governance dei territori viene migliorata?

Se escludiamo la novità parziale della costituzione della città metropolitana di Sassari che, in definitiva, così come indicato dalla legge statale sull’istituzione delle Città metropolitane (prima della legge in esame in Sardegna si applicava quella, che in un paper il costituzionalista Antonio Riviezzo, professore associato all’Università di Siena,  indica come “‘area metropolitana ristretta”, intendendo con questo una città metropolitana limitata alla conurbazione urbana di un capoluogo o di provincia o di regione e che si fa coincidere con la delimitazione territoriale della provincia. Su questo punto, tra le altre cose, occorre considerare che la Sardegna con la sua bassa densità di popolazione è molto diversa da situazioni, come ad esempio Milano,  che ha dovuto comprendere nella Città Metropolitana anche comuni fuori dalla precedente delimitazione provinciale, visto il continuum geografico, economico e sociale di quella area urbana. Cosa avrà di omogeneo, per esempio, un comune come Burgos con l’area vasta di Sassari od un comune come Seui con l’area vasta di Cagliari? Poco o nulla. Questa evidente diversità non migliorerà di certo la governance del territorio in considerazione che in alcune materie le due entità, città metropolitana e provincia, differiscono visto che funzioni ora proprie delle Unioni dei Comuni passeranno alla città metropolitana ed andranno a costituire un sistema di poteri e funzioni maggiormente accentrato rispetto a quello attuale.

 

Sono aumentate le competenze degli enti locali?

In questo senso le competenze dei singoli enti locali non variano, in queste due leggi, la n. 7/2016 e quella attuale non vi è alcun incremento di competenze ma solo un aggiornamento visto che non è previsto che la RAS trasferisca suoi poteri al sistema degli enti locali. Da questo punto di vista, che a nostro avviso rimane quello cruciale in una riforma vera dell’assetto istituzionale sardo, si denota che la concezione centralista non muta in senso federale bensì riesce a coniugare due fattori, il centralismo con il localismo,  e non si affronta la questione dell’allargamento della democrazia che si può ottenere con l’avvicinare il processo decisionale ai cittadini. Questo processo che possiamo definire “virtuoso” è possibile solamente considerando una forte riforma della RAS, laddove le vengano lasciate solamente la funzione legislativa e programmatoria generale ed il potere esecutivo solo sulle partite strategiche di valenza regionale. Tutte le competenze esecutive dovrebbero essere trasferite alle province/città metropolitane ed, a cascata, alle Unioni dei comuni/comunità montane ed ai singoli comuni. In questo caso si avrebbe un modello politico che partendo dal basso svolge tutte le competenze possibili in un territorio e demanda le altre al livello istituzionale successivo. Per avere a disposizione una definizione sintetica questo modello lo possiamo chiamare “Assetto federale interno”.

 

L’introduzione delle città metropolitane di Cagliari e Sassari e il ripristino delle province regionali risponderà agli obiettivi enunciati nell’articolo 1 sulle finalità che riporta che la legge “riforma la disciplina dell'assetto degli enti di area vasta della Sardegna in coerenza con le identità storico-culturali dei singoli territori, al fine di realizzare un equilibrio territoriale tra le diverse aree della Regione e di promuovere opportunità di sviluppo e di crescita uniformi e omogenee nell'Isola”?

Su questo punto non vogliamo essere cattivi profeti, ma crediamo che gli squilibri territoriali siano destinati ad aumentare e ad allargare quel divario di sviluppo e crescita già esistente oggi. Tenendo presente che lo sviluppo economico, sociale e culturale di un territorio non può e non deve essere affidato ad un solo soggetto, è anche vero che lo sviluppo locale ha un grande vantaggio se l’istituzione che ne programma gli investimenti pubblici da realizzare è vicina alle istanze di un territorio, ne interpreta gli input (culturali, economici, storici e di consapevolezza) per avviare processi di sviluppo endogeno. In questo senso un grande ruolo dovrebbero avere le Unioni dei Comuni e le cinque Comunità Montane, livello territoriale ottimale con il protagonismo dei singoli comuni in un’ottica di collaborazione e di sistema aperto. Peraltro queste entità amministrative territoriali hanno il vantaggio di essere state definite quasi totalmente sulle regioni storiche della Sardegna dove le similitudini tra le singole comunità sono grandi e questo costituisce un vantaggio competitivo sul versante della progettualità. Purtroppo l’attuale riforma va in tutt’altra direzione ed ha ulteriormente confermato la scelta della classe dirigente, quella presente e la precedente che ha governato la Sardegna, nell’accentrare poteri, risorse e decisioni nelle mani di élite urbane o neo urbanizzate. La definizione “allargata” delle Città Metropolitane ed il moltiplicarsi delle province, con riduzione in ordine di grandezza rispetto alle storiche, confermano da versanti opposti questo assunto, perché comunque sia sottrarranno ruolo e risorse alle Unioni dei Comuni – l’attuale riforma peraltro tace sulla fine che faranno questi enti territoriali nell’ambito delle nuove città metropolitane visto e considerato che in qualche modo ne assorbono ruolo e competenze. La modifica dell’articolo sette, comma due della legge Erriu prevista dall’attuale riforma conferma la non obbligatorietà dei comuni a unirsi in Unioni dei Comuni, di fatto disincentivando al proprio interno la suddivisione in ambiti territoriali più ristretti.

In definitiva si è disegnato un sistema dove da un lato si aumenta il numero delle province, con il dichiarato intento di avvicinare maggiormente questa istituzione ai cittadini, ma dall’altro non si aumentano le competenze, con un reale e cospicuo decentramento di funzioni e risorse dalla RAS, e non si prevedono elezioni democratiche rimanendo in tal modo in vita ma moribonde.  Oggi le province sono commissariate, a regime i vertici politici dovrebbero essere  nominati dagli amministratori dei comuni, ed anche questo livello di governance del territorio è oggi in mano al moloch Regione che li governa attraverso la nomina dei commissari. Il rapporto con la RAS pertanto non viene modificato, in questo modo sembrerebbe che le province (nella riforma Erriu, fatta a ridosso del referendum costituzionale  voluto da Renzi, si è dato per scontato che le province venissero abrogate e quindi si è legiferato come se queste stessero per sparire regolandole solo in via transitoria) possano essere trampolino di lancio di politici locali per la corsa ad essere eletti “nell’Eldorado” Regione, ed i livelli intermedi di governo del territorio non raggiungono quel livello di competenze, di risorse, di legittimità democratica utili ad un protagonismo vero nel rilancio delle comunità locali

 


Conclusioni

A questo punto possiamo dire che nelle riforme istituzionali possono esistere diverse “scuole di pensiero”, ovvero una che sostiene che le istituzioni locali debbano accompagnare, assecondare l’evoluzione economica, sociale, demografica di un territorio non tenendo presente che alcune dinamiche possono produrre squilibri importanti in una comunità, nello specifico quella sarda ed un’altra scuola di pensiero sostiene che le istituzioni locali debbano anticipare e determinare alcuni indirizzi nel cambiamento sociale economico e demografico. Lungi dal pensare che lo sviluppo dipenda da una istituzione ma sicuramente attraverso una più aderente rappresentanza democratica ai bisogni dei cittadini si può concorrere ad uno sviluppo sostenibile ed armonico di tutte le comunità della Sardegna. Di questo se ne ha il riscontro con l’importanza che ha avuto in Sardegna l’istituzione della RAS che nell’ambito urbano di Cagliari ha determinato una crescita vorticosa dagli anni cinquanta ad oggi, contribuendo a creare, insieme ad altri importanti fattori, quegli squilibri territoriali che stanno causando a nostro avviso una catastrofe antropologica, riducendo la Sardegna interna ad un deserto sociale e contribuendo alla crescita della dipendenza attraverso la “terziarizzazione esasperata”. Questo in misura minore è avvenuto negli anni anche per Sassari e le altre città sarde. L’ultima riforma in ordine di tempo poi sembrerebbe attuata più per soddisfare pulsioni localistiche (diatriba Sassari vs Cagliari, la tenace aspirazione dei galluresi ad una loro provincia) che per arrivare ad un sistema di enti locali alternativo a quello precedente tanto che buona parte della riforma Erriu rimane in piedi. Sul versante delle città metropolitane, che molti partiti politici ritengono importanti e su questo hanno costruito battaglie all’arma bianca, c’è da dire che all’indomani della loro istituzione (legge 56/2014 ) le regioni a statuto speciale, che hanno competenza primaria in materia di Enti Locali, hanno avuto strategie differenti. Nella legge statale erano presenti (solo come indicazione) le città di Trieste per il Friuli Venezia Giulia, Cagliari per la Sardegna e Palermo e Catania per la Sicilia. In Sicilia il Parlamento siciliano ha legiferato ed ha approvato tre città metropolitane dando anche a Messina questo status. Diversamente in Friuli Venezia Giulia, dopo un approfondito dibattito in Consiglio regionale si è deciso di non confermare Trieste come Città metropolitana perché altrimenti si sarebbero prodotti squilibri territoriali a discapito dei territori friulani. Due modelli alternativi di organizzazione degli enti locali, Sicilia e Friuli Venezia Giulia, che avrebbero dovuto suscitare in Sardegna un dibattito incentrato maggiormente sulle ricadute negative che una istituzione come la città metropolitana avrebbe avuto sugli equilibri tra vari territori dell’isola. Insomma, in Sardegna è prevalso il modello siciliano soprattutto con questa nuova legge che inserisce anche Sassari tra le Città metropolitane. Per quanto ci riguarda avremmo preferito che fosse stato di esempio il Friuli Venezia Giulia dove più che ai limitati e circoscritti vantaggi derivanti dall’istituzione delle Città metropolitane si è guardato maggiormente agli squilibri provocati. Solo nel tempo verificheremo se davvero la strategia adottata in Sardegna avrà prodotto più benefici che danni.



   



 

 

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