La scuola
nell'era della rivoluzione digitale – I Giganti di Monte Prama in Cina – Uno
scontro tra fonti normative – Una scuola ufficiale estranea alla lingua, alla
storia ed alla cultura di un popolo – Quali alternative?
La scuola
dell'isola nell'era della rivoluzione digitale. Secondo l'eminente farmacologo
Gian Luigi Gessa, dell'Università di Cagliari, siamo ad un passo dalla “demenza
digitale”, per l'uso incontrollato - ed apparentemente incontrollabile - di
smartphone, tablet e quant'altro specialmente da parte delle nuove generazioni.
In un certo qual modo, gli hanno fatto eco autorevoli neuroscienziati tedeschi,
fra i quali, addirittura, c'è chi ha prospettato la possibilità - e la
necessità - di un divieto pressoché assoluto, in certi contesti, verso l'uso di
determinati strumenti: almeno fino ai 18 anni! In un incontro svoltosi a
Sassari il 30 maggio presso il Liceo “Margherita di Castelvì” (organizzato
anche dall'Associazione sassarese di Filosofia e Scienza), Giovanni Biggio,
professore emerito dell'Ateneo
cagliaritano, con dovizia di dati e di immagini e con rara chiarezza
espositiva, ha posto in luce mutamenti e trasformazioni in atto nel
delicatissimo cervello dell'adolescente, ancora in formazione; i rischi, per
fare solo un esempio, insiti nei comportamenti di coloro che, assuefatti
all'uso massivo dei supporti digitali ed informatici, perdono il senso e la
coscienza del pericolo, per il venir meno di attenzione ed allarme cui, nel
cervello, presiede l'amigdala. Nel corso della
stessa iniziativa, Elisabetta Gola ed Emiliano Ilardi, essi pure docenti
universitari a Cagliari, hanno compiutamente delineato il quadro di una scuola,
almeno quella più tradizionale, già abbondantemente sconfitta dal dilagare
della rivoluzione digitale che, durante le lezioni, riduce in stato di
sonnolenza quegli alunni che hanno trascorso una parte della notte a smanettare
ed a giocare con i telefonini (si veda anche il volume, ben articolato e
problematico sull'argomento, di Bachisio Bandinu, Lettera a un giovane sardo
sempre connesso, Domus de janas, Sestu-Cagliari, 2017).
Non c'è nulla da
fare? Dobbiamo limitarci a prendere atto di epocali mutamenti? Guai se un
educatore, genitore o insegnante, facesse tale affermazione! Decadrebbe
immediatamente dal suo ruolo. Alcune proposte, in particolare di Ilardi, mi
hanno lasciato francamente perplesso, perché sembrano, quasi, sottintendere una
specie di resa - certo, condizionata - ai videogiochi. Se propongo ai miei
studenti di costruire un videogioco sul centro storico di Cagliari, ha detto il
docente, otterrò l'obiettivo di vincolarli a intense letture di carattere
storico e, allo stesso tempo, li troverò più che disponibili a costruire
qualcosa di diverso con le nuove tecnologie. In effetti, penso ai
risultati, davvero ragguardevoli, ottenuti nel mio Liceo, lo Scientifico
“Giovanni Spano” di Sassari, dagli stimati colleghi Angelo Orlacchio, Angelo
Alfonso e Giovannella Meazza i quali, dalle Olimpiadi di Matematica ad altri
concorsi, hanno conseguito premi e riconoscimenti, ormai da vari anni, in tutta
la penisola, grazie anche all'accorta e paziente regia dell'attuale dirigente
scolastico Paolo Deroma, senza dimenticare Franco Accardo, che lo ha preceduto.
Certo, si potrebbe osservare, si tratta di limitati, non generalizzabili casi
di eccellenza. In realtà, nel mio Liceo - e altrove - ho incontrato e
conosciuto tante ragazze, tanti ragazzi per niente disposti a portare la
coscienza all'ammasso o a farsi rincitrullire dalla rivoluzione digitale. Con
ciò, sarebbe sbagliato sottovalutare problemi, difficoltà ed ostacoli d'ogni
sorta che oggi sono di fronte agli insegnanti. Da anni in Sardegna
operano colleghi in grado di costruire sapientemente lezioni, moduli, unità e
percorsi articolati di carattere didattico, riguardanti una pluralità di
discipline, dove si fa ampio e consapevole ricorso a vari tipi di strumenti
informatici. Tutto ciò deve renderci edotti e consapevoli che una scuola sarda
dove sia previsto ufficialmente l'insegnamento della lingua, della storia e
della cultura isolane è un qualcosa che, lungi dall'essere irrimediabilmente
fuori moda, è invece a portata di mano, si configura come terreno praticato e
praticabile.
I Giganti di Monte
Prama in Cina.
Certe operazioni di restauro sono oggi impossibili senza il ricorso a raffinati
e complessi supporti informatici. Pensiamo allo straordinario lavoro condotto
su migliaia di frammenti scultorei rinvenuti, a partire dal 1974, nella
penisola del Sinis, ricomposti e restaurati presso il Centro di Li Punti
(Sassari) grazie al meticoloso e tenace lavoro di Antonietta Boninu, Alba Canu,
Andreina Costanzi Cobau, Gonaria Demontis, Valentina Leonelli, Patrizia Luciana
Tommassetti e Luisanna Usai (cfr. F. Francioni, Dai Giganti di pietra a una
nuova rappresentazione della Sardegna, nella rivista “Camineras”, n. 5,
2017, pp. 43-58). Nel 2017, un
convegno di rilevante portata internazionale, svoltosi fra Shangai e Pechino,
ha confrontato la grande statuaria nuragica di Monte Prama e l'esercito di
terracotta di Xi 'an. Sarebbe sufficiente un tale evento per assumere chiara
consapevolezza dell'assoluto rilievo che i Giganti si sono conquistati sulla
scena mondiale (si veda quanto ha scritto in proposito Raimondo Zucca,
archeologo e docente nell'Università di Sassari, su “La Nuova Sardegna” del 16
maggio 2017). Giovanni Lilliu, fin dagli anni Settanta, Giovanni Ugas e lo
stesso Zucca, in seguito, hanno efficacemente descritto, analizzato e
commentato la svolta decisiva rappresentata da questa produzione scultorea, di
carattere “anticlassico” (la definizione è dello stesso Lilliu) che anticipa di
vari secoli quella classica greca. Ebbene, come è stato fatto a Li Punti, anche
nella scuola possiamo capire, comprendere e scoprire la svolta di Monte Prama
facendoci aiutare da una serie di strumenti digitali.Neanche l'iniziativa
che ha avuto luogo in Cina è valsa comunque a smuovere la cultura dominante, le
istituzioni dello Stato ed una scuola pubblica che hanno operato, lungo i
decenni, per soffocare e svilire, nei fatti, qualunque istanza tendente ad
introdurre ufficialmente lo studio della storia della Sardegna, dalle
elementari agli istituti superiori.
Uno scontro tra
fonti normative.
Nella sua ormai classica opera La rivolta dell'oggetto. Antropologia della
Sardegna” (Giuffrè, Milano,1978), il saggista, scrittore e giornalista
Michelangelo Pira (che fu anche docente di Antropologia nell'Ateneo
cagliaritano) dedicò importanti pagine al ruolo della scuola nell'isola.
L'istruzione ufficiale qui impartita va posta in relazione ad un quadro
caratterizzato da un forte conflitto tra codici, tra fonti normative,
linguistiche e culturali ben diverse, se non contrapposte: da una parte, quelle
di uno Stato che va definito, senza esitazione alcuna, come colonialista (si
pensi, in proposito, anche a ciò che ha scritto lo storico franco-americano
John Day, grande amico della Sardegna); dall'altra parte, il patrimonio della
nostra comunità, svilito però, in genere, dai ceti dirigenti politici ed
intellettuali locali, obbedienti, in varia misura, al paradigma di un assoluto
isolamento, di una marginalità, di una arcaicità e perifericità dell'isola cui
si tratterebbe di contrapporre una non meglio precisata “modernizzazione”, decisa
e regolamentata, s'intende, dai centri di potere economico e politico esterni:
quelli nei confronti dei quali l'intellettualità “ufficiale” si pone come
mediatrice, con l'obiettivo di creare e perpetuare propri spazi di potere. Si badi bene: Bitti,
paese natale dello stesso Pira, ha sempre rifiutato l'istituzione scolastica
statale? Risponde l'antropologo: assolutamente no! Questo centro anzi, fin dai
primi decenni dell'Ottocento, chiese ed ottenne l'istruzione pubblica ma, con
essa, si insediò una scuola completamente estrinseca, sovrapposta al contesto
socioeconomico, linguistico e culturale isolano. A partire
soprattutto dagli anni Settanta, tanti docenti cominciarono a coltivare
nell'isola un tenace impegno nell'avviare e realizzare programmazioni, moduli e
unità didattiche incentrate sulla storia e sulle storie locali (mi permetto di
rinviare al mio volume su Dante e la Sardegna. Invito a una nuova lettura,
Condaghes, Cagliari, 2012-2015, con indicazioni per interventi didattici
concreti ed operativi e un DVD allegato, contenente un documentario diretto da
Vittorio Sanna). A queste esperienze
occorre aggiungere il dibattito e le iniziative meritoriamente avviate grazie a
“Sa die de sa Sardigna”. Tale scadenza fu oggetto di attacchi e polemiche ad
opera di mass-media e di accademici che vedevano in essa municipalismo,
localismo, un arroccamento, un rinchiudersi in se stessi. Al contrario, il
triennio rivoluzionario sardo 1793-96 - il più grande sommovimento
sociopolitico nella storia isolana - vide l'influsso di idee provenienti dalla
Francia e dall'Europa, la mobilitazione rurale ed urbana, antifeudale ed
antiassolutistica di tanti professionisti, intellettuali, uomini dei Gremi,
donne, giovani ed anche di parroci davvero coraggiosi (molti pagarono con
esecuzioni capitali, condanne a pene detentive, a remare nelle navi galere,
all'esilio il loro coinvolgimento nelle lotte); in quegli anni va
necessariamente inserita l'insurrezione di Cagliari del 28 aprile 1794 contro
il governo sabaudo, moto che poi si estese, senza tumulti di piazza, a Sassari
e ad Alghero. La riflessione su queste vicende si è saldata, in tanti incontri,
dentro e fuori delle scuole, alle discussioni sui problemi della Sardegna di
oggi. Questo è uno dei meriti dell'istituzione di “Sa die”. Negli anni, con la
Fondazione Sardinia, con altri enti ed organismi, abbiamo organizzato per “Sa
die” seminari e convegni cui vari istituti isolani hanno partecipato con un
ruolo attivo, propositivo ed anche con l'apporto di video messi a punto dagli
alunni.
Una scuola
ufficiale estranea alla lingua, alla storia ed alla cultura di un popolo. Per quanto importante, questa
intensa attività non può, non deve farci dimenticare che, ufficialmente, nelle
scuole di ogni ordine e grado, tutto s'insegna fuorché la storia isolana, con
negative conseguenze nella crescita, nell'educazione generale e nella
formazione delle nuove generazioni: il rischio evidente consiste nella caduta
in forme di sradicamento e di alienazione che - paradossalmente, ma poi non tanto
- rendono più penoso e complicato l'apprendimento di una disciplina, la storia,
vista come lontana, estranea ed astratta. Il danno apportato è
stato dunque rilevante, anche e soprattutto per la lingua sarda, oggi
minacciata di estinzione. Eppure le ricerche socio-psico-pedagogiche e
psico-linguistiche hanno efficacemente dimostrato, con una molteplicità di
cifre e dati, che, se la lingua materna, o comunque del posto, non viene
compressa, svilita, disprezzata e rimossa, l'alunno, lungi dall'incontrare
nuove difficoltà, è messo anzi in condizioni di meglio apprendere una pluralità
di lingue: al riguardo sono da considerare le ricerche apposite, condotte in
ambito universitario, di cui ha riferito Maria Vittoria Migaleddu (in Vantaggi
cognitivi del bilinguismo, su “Mathesis-Dialogo tra saperi”, n. 19,
dicembre 2012, pp. 25-35, rivista semestrale, organo dell'Associazione
sassarese di Filosofia e Scienza, www.filosofiscienza.it). Quanto si può
leggere nel contributo della Migaleddu può essere, diciamo così, “tradotto” ed
esteso all'insegnamento della storia: i ragazzi e gli studenti cui saremo in
grado di porgere adeguatamente, per esempio, la sconvolgente scoperta della
grande statuaria nuragica saranno messi in grado di comprendere non solo
l'originalità di un profilo storico, linguistico e culturale, ma anche di
operare confronti in direzione di altri contesti. Ne guadagnerebbe
indubbiamente la possibilità di meglio capire e comunicare con gli altri, con i
diversi da noi, a tutto vantaggio della fratellanza e della pace tra i popoli,
obiettivo fondamentale di ogni progetto educativo. Per fare solo un
altro esempio: si può fare riferimento ad una recente, poderosa monografia del
già ricordato Ugas (Università di Cagliari) che, dopo decenni di ricerche sul
campo, si è espresso in favore dell'abbinamento fra Shardana e Sardegna,
riprendendo e sviluppando quanto autorevolissimi studiosi avevano già sostenuto
fin dall'Ottocento. Ebbene, almeno alcune pagine delle mille ed oltre del
volume di Ugas potrebbero fornire degli spunti preziosi per saperne di più su
Shardana e Popoli del Mare, per costruire apposite unità didattiche che
consentirebbero ai docenti di uscire dalla bolsa e generica ripetizione di
quanto già sappiamo sugli Egiziani e sui faraoni impegnati a fare i conti con
quelle entità che si affacciavano sul Mediterraneo antico (cfr. G. Ugas, Shardana
e Sardegna. I Popoli del Mare, gli alleati del Nordafrica e la fine dei Grandi
Regni (XV-XII secolo a. C.), Della Torre, Cagliari, 2016). In definitiva,
abbiamo un bisogno direi molto, ma davvero molto relativo, di ricorrere ai
videogiochi, al Trono di spade o ai film sui Borgia che, secondo quanto
ha sostenuto il già ricordato Ilardi, (nell'incontro di Sassari del 30 maggio)
sarebbero ben congegnati ed anche ben documentati dal punto di vista
storico-storiografico.
Quali
alternative? Si
rende indispensabile contrapporre ad un processo storico-educativo che comporta
sradicamento, alienazione, distruzione di un patrimonio irrinunciabile ed
irripetibile - così come quello di altri popoli minacciati dall'uniformismo
della globalizzazione - il ricorso alla normativa europea e, per quanto
riguarda l'insegnamento della lingua, alla legge 482/1999, grazie alla quale lo
Stato italiano ha finalmente riconosciuto le minoranze linguistiche esistenti
al proprio interno. Dal suo canto, la legge regionale sulla lingua sarda,
approvata dal Consiglio alla scadenza della legislatura, per l'impegno profuso
specialmente dall'on. Paolo Zedda, è andata incontro a polemiche di vario
segno, riguardanti soprattutto il problema dello standard. Qui si vuole
semplicemente mettere in luce che il dibattito in Consiglio ha, se non altro,
richiamato l'attenzione sullo Statuto sardo che, sul nodo della lingua, non
narat pròpriu nudda: una lacuna, unu bòidu grae meda. Come si fa ad
organizzare il presente, a programmare un futuro diverso, alternativo alla
squassante crisi economica, allo smarrimento etico-politico e spirituale che
stiamo attraversando, se non si ha la minima contezza della propria storia e
dei propri codici linguistici? Come si diceva
prima, non basta nella scuola l'impegno di alcuni o di tanti valorosi docenti.
Per andare verso una normativa che introduca l'insegnamento ufficiale della
storia, della lingua e della cultura sarda nelle scuole di ogni ordine e grado
si rende indispensabile una rivoluzione culturale: occorre sbarazzarsi di ogni
cultura della subalternità, di quei sensi di colpa e di vergogna messi in luce
con chiarezza dalle ricerche di Bandinu e di Placido Cherchi. A quegli
intellettuali accademici ed “ufficiali” che invece si sbracciano,
raccomandandoci di non mitizzare il passato, si può replicare tranquillamente
che si è invece verificato esattamente il contrario: la tendenza costante a
sminuire, cuare, cioè nascondere, svilire un patrimonio di storia,
lingua e cultura che non va considerato in modo disgiunto dalla biodiversità.
Tutti questi elementi fanno di ogni singolo luogo - del mondo, si badi bene -
qualcosa di unico, di irripetibile, di irrinunciabile, di non interscambiabile
come sono invece le merci: l'unicità dei territori, va dunque ribadito, non
riguarda solo la Sardegna. Ogni persona, come ogni luogo, ha un suo carattere
sacrale. Lo hanno affermato anche studiosi non certo sospettabili di adesione a
posizioni di stampo essenzialista e fondamentalista. D'altra parte, non
abbiamo assolutamente bisogno di mitizzazione alcuna: alla grande statuaria
nuragica, ad un monumento giuridico come la Carta de Logu, promulgata dalla
giudichessa Eleonora d'Arborea (si pensi ai capitoli più spiccatamente
improntati al rispetto della donna, nonché alla tutela ed alla protezione dei
minori), al triennio sardo 1793-96 dobbiamo dare quel rilievo che ci consenta
l'autocoscienza e quella coscienza indispensabile per il dialogo, la
cooperazione e gli scambi con altri popoli. Con questi potremo più
efficacemente comunicare inserendoci in quelle “reti di indignazione e di
speranza” su cui si è acutamente soffermato il sociologo catalano Manuel
Castells (si veda un suo libro dallo stesso titolo, edito da Università Bocconi
nel 2012).
Dae paritzos
annos su giassu nostru e sa rivista “Camineras” s'impignant meda in custa
dimensione generale pro dare mèdios a un'alternativa chi devimus sighire a
fraigare in sas iscolas e in sa
sotziedade.
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