Venerdì 2 febbraio 2017, nell'auditorium della Biblioteca
"Satta" di Nuoro, si è svolto un incontro-dibattito su La Sardegna tra Arborea e Aragona, di Gian
Giacomo Ortu, presente l'autore. L'iniziativa è stata introdotta da Marina
Moncelsi e Federico Francioni, di cui riportiamo la relazione.
Complessità e difficoltà della conquista della Sardegna da parte della
Monarchia catalano-aragonese – La spedizione del 1323-24: un onere economico e
finanziario gravoso – Dal
1353 alla rivolta arborense – La Carta de Logu come Carta
libertatis – Storia della Sardegna e storia della penisola iberica.
Complessità e difficoltà della conquista della Sardegna da parte della
Monarchia catalano-aragonese.
Il libro di Gian Giacomo Ortu su La Sardegna tra Arborea e Aragona, di
505 pagine, edito nel 2017 dalla casa editrice nuorese Il Maestrale, è
indubbiamente destinato ad assumere un posto di rilievo negli studi sull'isola
durante il Medioevo; si tratta di un volume da mettere in relazione con feconde
stagioni di ricerche, che comprendono le fondamentali produzioni di Enrico
Besta, Arrigo Solmi, in seguito di Alberto Boscolo e della sua scuola, quindi
di Marco Tangheroni e di John Day, lo storico franco-americano che fu grande,
sincero amico ed estimatore della nostra terra. L'eredità di tutti questi
autori è stata raccolta da nuove leve di storici.
Ortu è fra i pochissimi che abbiano affrontato temi e problemi sia
dell'XI, XII e XIII secolo sia di quelli successivi: com'è noto un medievista e
maestro come Boscolo non esaminò mai la grande triade, il grande trittico
formato dai giudici arborensi Mariano IV, Ugone III ed Eleonora. Ortu d'altra
parte premette nel suo libro che il ruolo di storico "modernista",
svolto per tanti anni nei ranghi dell'Università di Cagliari, non gli ha mai
impedito di andare oltre certi steccati, come ha dimostrato un'altra sua consistente
monografia, La Sardegna dei giudici (Il Maestrale, 2005): ciò è avvenuto
specialmente per la passione e l'impegno da lui profusi nelle indagini sulle
comunità rurali, la vita familiare, singoli villaggi, le istituzioni, da quelle
locali ad una dimensione più ampia (penso al suo libro su Lo Stato moderno.
Profili storici, Laterza, 2001). Tutti questi nodi sono stati dunque presi
in esame in una proiezione che possiamo definire di longue durée, per
usare una categoria dell'eminente storico francese Fernand Braudel.
Il nostro autore esamina lo scontro fra la Monarchia catalano-aragonese
e gli arborensi lungo il Trecento e il Quattrocento, ponendo subito in evidenza
l'estrema complessità dell'operazione, gli innumerevoli ostacoli incontrati dai
regnanti iberici per prendere possesso effettivo dell'isola. Intervenendo
autorevolmente in un dibattito storiografico da tempo in corso, Ortu afferma
che le logiche imperialistiche della dinastia catalana si coniugarono, non
senza difficoltà, specialmente con gli interessi mercantili delle città
costiere.
La spedizione del 1323-24: un onere economico e finanziario gravoso. Nel 1297, com'è noto, il pontefice Bonifacio
VIII aveva conferito l'investitura del Regnum Sardiniae et Corsicae a
Giacomo II d'Aragona ma, lo sappiamo bene, passarono più di due decenni prima che venisse data una
prima, concreta attuazione a quella che - come ha ricordato Francesco Cesare
Casula – altro non era che uno ius o una licentia invadendi. A
parte il Giudicato d'Arborea, il potere nell'isola era frammentato tra il
Comune di Pisa e i domini Sardiniae: i della Gherardesca, conti di
Donoratico (cui apparteneva il celebre conte Ugolino del Canto XXXIII dell'Inferno
dantesco), i litigiosi Doria (quasi sempre in conflitto fra loro), i Malaspina
della Lunigiana, con i vari Corrado, Francesco e Moroello (secondo l'eminente
dantista Guglielmo Gorni, un Moroello, appartenente ad uno dei vari rami dei
Malaspina, sarebbe il dedicatario del Purgatorio).
Ortu si muove con sicurezza tra le fonti archivistiche disponibili e la
vasta letteratura storico-storiografica sarda, italiana, iberica e più
generalmente internazionale, da Jaume Vicens Vives a Jaume Sobrequés, da Rafael
Conde y Delgado de Molina a Jesus Lalinde Abadia, per citarne solo alcuni. La
Catalogna offrì al sovrano 1.393.000 soldi, l'Aragona 707.500, Valenza poco
meno: 696.000. Nell'insieme si trattava di 2.797.000 soldi, pari a 139.870
lire. Per la metà o quasi l'importo gravava sul Principato catalano (49, 83%) e
per 1/4 circa sui Regni aragonese e valenzano. Viene inoltre ampiamente
spremuta, come precisa lo stesso Ortu, la componente ebrea. Barcellona è la
metropoli dove si smistano e si redistribuiscono i mezzi reperiti per la
spedizione e la conquista della Sardegna. In una panoramica più larga
dell'onere economico-finanziario, davvero gravoso, sostenuto dalla Corona
catalano-aragonese, il nostro autore ricorda che Giacomo II è costretto ad
alienare spezzoni importanti del suo patrimonio
(1 baronia, 1 arcivescovado, 1 zecca), deve concedere grazie e privilegi
che prima costituivano introiti cospicui dell'erario regio. Dal momento che la
guerra è impossibile senza adeguati investimenti di capitali, non avrei tralasciato,
se mi è permesso uno spunto critico, un volume di Angelo Castellaccio sulla
circolazione del tornese (ad opera dei della Gherardesca), del fiorino, delle
monete coniate dai pisani, dai giudici e dai catalano-aragonesi (Economia e
moneta nel Medioevo mediterraneo, Taphros, Olbia, 2005).
La conquista materiale della Sardegna, territorio per territorio, fu
lunga ed aspra e si articolò attraverso varie fasi. Del 1323-24 è la spedizione
nell'isola dell'infante Alfonso che riuscì ad impadronirsi di Villa di Chiesa
(antico nome di Iglesias), dopo aver fatto dolorosamente i conti con un nemico
ben poco cavalleresco come la malaria che però colpiva anche gli assediati. Ma
soprattutto egli riuscì vincitore nella battaglia di Lucocisterna, presso
l'attuale Elmas. Cagliari fu costretta ad arrendersi ma i pisani ne mantennero,
sia pure per breve tempo, il possesso, rinunciando però a tutti i loro restanti
territori isolani. Ortu pone in risalto che le conseguenze di un cattivo
governo dei conquistatori catalano-aragonesi si avvertirono quasi da subito:
Sassari insorse dapprima nel 1325, quando venne ucciso il podestà catalano
Ramon de Sentmenat, in seguito nel 1329: la repressione regia fu
particolarmente dura e colpì anche i Malaspina, alleati dei sassaresi ed in parte
loro sobillatori. Fra le prime,
importanti investiture feudali concesse dal re catalano-aragonese spicca
quella ai Carroz.
Dal 1353 alla rivolta arborense. Per non svolgere il ruolo del vaso di coccio
sballottato fra quelli di ferro – e cioè Aragona, il Comune di Pisa, i della
Gherardesca, i Doria e i Malaspina – il giudice Ugone II d'Arborea accetta di
giurare fedeltà feudale alla Corona. Dopo Ugone II sale sul trono Pietro III
(1335-1346), ma la politica arborense, come sappiamo, avrà una svolta con
Mariano IV, una personalità di grande rilievo. Un altro momento cruciale della
conquista catalano-aragonese è costituito dalla spedizione del 1353. A Bernat
de Cabrera, uomo forte del centralismo e dell'imperialismo dinastico, viene
affidato il comando di 45 galee (un numero davvero consistente). Alleata con la
Repubblica di Venezia, la flotta catalano-aragonese trionfa, nella battaglia di
Porto Conte, su quella genovese guidata da Antonio Grimaldi (appartenente ad
una delle famiglie più cospicue de La Superba): 33 delle 50 galee genovesi
vengono catturate.
Ben presto Mariano IV si pone alla testa di una rivolta che divampa al
grido di "Arborea, Arborea!". Alghero si solleva.
"L'insofferenza politica della Casa d'Arborea – scrive Ortu – si saldava
alla sofferenza sociale delle campagne vessate dai nuovi signori feudali".
Il 1354 è un'altra data decisiva poiché, di fronte alla ribellione del
giudice arborense, il nuovo monarca Pietro IV, detto il Cerimonioso (aveva
riformato l'etichetta di corte), succeduto a Giacomo II e ad Alfonso IV, detto
il Benigno, chiama alle armi dalla splendida chiesa barcellonese di Santa Maria
del Mar. A Barcellona si riunisce il Parlamento: le Corts stanziano
100.000 lire per una nuova impresa in Sardegna; un centinaio di vascelli di
vario tipo costituisce una delle flotte più imponenti per il Mediterraneo di
allora. Pietro IV riesce ad assicurarsi il possesso di Alghero ma, di fronte
alla minaccia di Mariano IV – le truppe arborensi si stanziano ed incombono
lungo un arco che va da Scala Piccada (presso Villanova Monteleone) a S'Iscala
de sos Caddos, Scala cavalli, lungo la strada che collega Alghero a Uri e
Ittiri – lo stesso re deve firmare una pace che considera disonorevole. Nel
1355 tuttavia il sovrano convoca a Cagliari, per la prima volta, le Corti, il
Parlamento sardo: si deve senz'altro concordare con Ortu laddove egli afferma -
mutuando una tesi di Giuseppe Meloni e prendendo invece le distanze da Lalinde
Abadia – che si tratta di un Parlamento vero e proprio (si forma anche una
Camera dei Sardi).
Ha così inizio la storia plurisecolare degli Estaments, il
Parlamento tricuriale o tricamerale di Antico Regime – formato dallo Stamento
ecclesiastico (arcivescovi, vescovi, abati mitrati, procuratori dei Capitoli
delle Cattedrali), dallo Stamento militare (feudatari, nobili e cavalieri),
dallo Stamento reale (sindaci delle città sottoposte a giurisdizione regia).
Dopo le regolari convocazioni del Seicento, col passaggio del Regnum
Sardiniae alla Casa Savoia, il Parlamento sarà completamente depotenziato
dalla logica centralistica ed assolutistica dei governi sabaudi - a parte la
fiammata e la reviviscenza del triennio rivoluzionario 1793-96 - fino alla
definitiva, formale scomparsa dovuta alla "Perfetta fusione" con gli
Stati di Terraferma (1847). Con Ortu, chi scrive è stato inserito nel progetto
di pubblicazione in edizione critica degli atti dell'antico Parlamento sardo,
promossa dal Consiglio regionale. Fra le Regioni dello Stato italiano, l'isola
può vantare un indiscusso primato, stabilito dalla stampa degli Acta
Curiarum Regni Sardiniae (ora disponibili anche on line, oltre che
gratuitamente in formato cartaceo).
Si tenga presente che alle sessioni parlamentari del 1355 Mariano IV
non si presenta personalmente. Nato nel 1319, egli era stato educato presso la
corte catalana, ma sarebbe riduttivo vedere nella sua complessa personalità
solo l'influenza culturale, giuridica, politico-diplomatica e militare dei
regnanti iberici. Aveva sposato Timbora de Rocabertì, appartenente a famiglia
di alto lignaggio (almeno due Rocabertì svolgono un ruolo di rilievo fin dagli
esordi della conquista militare catalano-aragonese). Mariano affida delicate
incombenze politico-diplomatiche alla moglie, dotata di energie e di capacità
spiccate che contribuirà a trasmettere ai figli: Ugone III, Eleonora, unitasi
in matrimonio a Brancaleone Doria (da non confondere con l'omonimo personaggio
che Dante colloca nell'Inferno,
canto XXXIII, fra i traditori degli ospiti, come omicida del suocero, il
sassarese Michele Zanche) ed infine Beatrice, maritata a Aimerico, visconte di
Narbona.
Dal punto di vista militare Mariano evita le battaglie campali col
nemico, ma riesce ugualmente a cogliere una grande vittoria di fronte ad
Oristano: l'esercito di Pietro de Luna, che muore sul campo, subisce una
rovinosa sconfitta grazie ad una manovra di Mariano (che irrompe dalle porte) e
del figlio Ugone che si trovava fuori della città. Avvertito tempestivamente,
quest'ultimo attacca De Luna alle spalle. Nel contrasto ai catalano-aragonesi
lo stesso Ugone è al comando di una flotta leggera (al riguardo si veda la monografia di
Raimondo Carta Raspi, Mariano IV, edita da "Il Nuraghe" e
apparsa nel 1934: se mi è consentito un altro spunto critico, non avrei
trascurato questo lavoro di un autore riscoperto e rivalutato in anni
abbastanza recenti da Gianfranco Contu).
Mariano si assicura il controllo di quasi tutta la Sardegna, escluse le
piazzeforti di Cagliari e di Alghero, ma muore nel 1375, quasi certamente di
peste. Gli succede Ugone III, ricordato fra l'altro per le sue Ordinanze,
studiate nel Novecento dal Besta. Fonti
catalane ci raccontano che era accusato di tirannia da avversari interni ed
esterni. Il suo potere viene rovesciato dai torbidi del 1383, allorquando il
giudice, con la figlia Benedetta, viene trucidato e gettato in un pozzo. Ad
Oristano si voleva dare luogo ad un governo di tipo comunale? La pista iberica
è estranea alla tragica fine di Ugone? In proposito rivestono ancora un certo
interesse le considerazioni di Carta Raspi. In ogni caso la tempra di Eleonora
risalta in quel terribile frangente: ella è tempestiva nello sventare le
manovre dei suoi nemici e nell'assicurare continuità al potere giudicale. Nel
1388 perviene ad una pace col re Giovanni I, detto il Cacciatore. Toccherà a
lei emendare, perfezionare, riformare e pubblicare nel 1392 la Carta de Logu.
Infine, nel 1402-1403, anche Eleonora deve soccombere alla pestilenza.
La Carta de Logu come Carta libertatis. La Carta de Logu è composta da 198
capitoli, dei quali 132 riguardano le norme civili e penali, mentre gli ultimi
66 altro con sono che il Codice rurale di Mariano. Nella gerarchia dei
poteri, al vertice si trovava la corte giudicale cui erano sottoposte la Audiensia
(che governava il sistema giudiziario) e la Camara (che gestiva
l'amministrazione economica, patrimoniale e fiscale dello Stato arborense).
L'ufficiale di grado più elevato era l'armentàrgiu de Logu, che
assolveva a funzioni esecutive, fiscali e giudiziarie. Toccava a lui presiedere
la Corona de Logu, supremo organismo giudiziario de Su Rennu. A
lui erano sottoposti i curadores, che svolgevano i medesimi compiti
relativamente alle singole Curadorias, province o distretti del
Giudicato. Quanto al maiore de villa, aveva competenze limitate al
villaggio, dove presiedeva la locale Corona, raccoglieva e comandava le milizie
e doveva eventualmente occuparsi dell'affidamento dei minori, verso i quali la Carta
de Logu dimostra una sensibilità insospettabile per quei tempi. Risulta
significativo, secondo Ortu, il silenzio che avvolge la dimensione urbana,
soprattutto di Oristano (e non solo, se si fa riferimento ad altri centri
caduti sotto controllo arborense): una conferma, scrive l'autore, del
carattere, almeno in prevalenza rurale, assunto dalla società nel
Giudicato.
Davvero stimolante la pagina in cui Ortu si sofferma sulla polisemia
del termine ragioni che sta ad indicare, di volta in volta, dettato
della legge, rendere giustizia, tenere ragione o giudicare, nostra (del giudice)
giurisdizione, oppure, ancora, rimettersi alla giustizia. Può essere utile, al
riguardo, ricordare i libri di Simone Sassu, La rasgioni in Gallura,
oppure quelli di Francesco Carboni e Salvatore Moreddu, più recenti, sulla
ricomposizione dei conflitti, per giungere a sas paghes, cioè alle paci,
fra singoli e gruppi di famiglie, al fine di interrompere la sanguinosa catena
delle faide. La Sardegna infatti non è solo la terra del codice della
vendetta, magistralmente ricostruito da Antonio Pigliaru: giacimenti di
ragguardevole importanza, che si trovano negli Archivi di Stato di Nuoro e di
Cagliari, documentano il secolare, incessante sforzo sostenuto da istituzioni
locali, Chiesa, singoli prelati e sacerdoti, privati, teso a interrompere il
ricorso alla violenza. Mentre il codice della vendetta non è scritto, quello
delle paci può essere agevolmente ricostruito a partire dai materiali
archivistici: si tratta di una nuova frontiera degli studi storici, giuridici
ed etnoantropologici.
Nella Carta de Logu la pena di morte, per decapitazione o sul
rogo, è sostanzialmente limitata a reati
molto gravi che escludono l'estinzione, in pratica, della pena tramite
versamento di denaro (po dinari neunu campit): i reati più gravi sono
quelli consumati contro il giudice, il tradimento, l'offesa violenta degli
ufficiali giudicali, il furto in casa con effrazione, grassazioni nelle strade
pubbliche, l'incendio di una casa, pratiche magiche, recidive di furti nelle
chiese (si vedano in particolare i capitoli da I a V).
Alla famiglia è riconosciuto un ruolo centrale: il marito ha,
sicuramente, potestà di "correzione" sulla moglie. Tuttavia la moglie
ed i figli di primo letto del traditore non devono patire lesioni dei loro
diritti patrimoniali; non è conforme al diritto – attenzione a questo
principio! - che le colpe del singolo ricadano su altri. In proposito la
concezione giuridico-giudiziaria di cui si faceva portatore Pietro IV il
Cerimonioso nel Parlamento del 1355 è
semplicemente antitetica, retrograda rispetto alla nuova frontiera
rappresentata dalla Carta de Logu. Certo, nel sistema penale della Carta
ha un ruolo non secondario l'antichissima legge del taglione, di origine
mesopotamica. Il taglio del piede, dell'orecchio e dell'occhio, per non parlare
della messa alla berlina, figurano espressamente tra le pene previste per vari
reati. Tutto ciò non può e non deve escludere la valutazione formulata a suo
tempo da Gabriella Olla Repetto (nel volume Il mondo della Carta de Logu)
in cui si afferma che la raccolta di leggi di Eleonora non è priva di
"raffinatezza giuridica". Valutazione confermata in buona sostanza
da La Carta de Logu d'Arborea nella storia del diritto medievale e
moderno (curata da Italo Birocchi e Antonello Mattone e pubblicata da
Laterza nel 2004). In questa opera la messa a punto dei debiti verso altre
legislazioni può spingerci ad affermare che è un pregio, non un limite,
l'apertura dei giuristi arborensi verso altri contesti (penso in particolare al
saggio di Vito Piergiovanni sull'influsso del diritto genovese).
Ancora: le donne partecipano alla successione dei beni
paterni nella stessa misura dei figli maschi. L'adulterio della donna è punito
con la privazione dei diritti patrimoniali solo se compiuto all'interno delle
mura domestiche. La donna che ha subito violenza ha diritto al matrimonio
riparatore ma, si badi bene, può anche, sua sponte, non avvalersene
(cap. XXI). Si tratta di un chiaro riconoscimento della dignità femminile; per
quanto sia impossibile individuare elementi decisamente emancipatori, non
sussiste dubbio alcuno che la donna nella Carta de Logu abbia accesso ad
una dose notevole, per quei tempi, di autonomia
e di autodeterminazione.
Si è già detto della sensibilità delle norme emanate
da Eleonora per i minori, fra le quali è da evidenziare il capitolo LXVII,
secondo cui l'usucapione non deve pregiudicare i diritti del minore; limiti
vengono frapposti alla possibilità di diseredare il minore stesso (cap. XCVII);
per sottrarsi all'obbligo di essere tutori degli orfani occorre dimostrare
adeguatamente un proprio impedimento (cap. CI).
Nella Carta de Logu si parla di feu o di
villas afeadas (ai capp. XX, XLVIII, XCII e XCIII), ma Ortu, con la sua
consueta acribia terminologica e lessicale, precisa che ciò ha ben poco a che
fare con il feudalesimo catalano-aragonese. Studi recenti hanno preso in esame
il nodo cruciale dell'esistenza o meno di un siffatto sistema nella Sardegna
giudicale o nelle terre dei domini italiani (si pensi al tema delle donnicalie
su cui ha scritto Alessandro Soddu). Ortu afferma che in Arborea era vigente un
feudo – egli sostiene – "a basso contenuto immunitario", cioè privo
di giurisdizione in materia criminale, con competenze limitate a sanzioni verso
reati economici e fondiari. Il potere dei signori era condizionato inoltre
dalle prerogative dei curadores e dei maiores de villa. In ogni
caso la giurisdizione feudale non poteva estendersi agli uomini liberi. Camillo
Bellieni, nel suo bel saggio su Eleonora d'Arborea, esaminò strumenti e
snodi che nella storia arborense e sarda avevano spinto verso la transizione
dal servaggio ad un nuovo status. In
generale possiamo dire, sulla scorta di quanto scrive lo stesso Ortu, che nel
Giudicato era presente un mondo di liberi di estensione non paragonabile a
quella di altre province europee, Francia compresa, dove la servitù – studiata
in particolare da Marc Bloch – venne sgominata definitivamente solo dalla
fatidica rottura dell'Ottantanove (come ci hanno insegnato i grandi storici
della Rivoluzione, da Albert Mathiez a Georges Lefebvre e ad altri). Per non
parlare, s'intende, della pervivenza del servaggio nella Russia zarista.
Con la definitiva conquista catalano-aragonese, il
feudalesimo diventerà un sistema più invasivo, pervasivo e pesante, in quanto
strettamente connesso alle strutture socioeconomiche, ai commerci ed agli
scambi ineguali imposti dallo Stato invasore.
Per concludere su questo punto, non si può che
condividere l'impegnativa espressione adottata da Ortu che qualifica la
raccolta di leggi portata a termine ed emanata da Eleonora come vera e propria Carta
libertatis; e, si badi bene, Ortu non è certo storico propenso a più o meno
facili mitizzazioni!
Nel 1421 il Parlamento di Alfonso V il Magnanimo
estende la Carta a tutta l'isola, escluse le città. Secondo Ortu, si
tratta di una bella rivincita della civiltà arborense. Lo stesso autore non
esita a adottare il termine "epopea" nel ricostruire la resistenza
contro la Corona, dalla quale emerge anche una precisa progettualità.
Considerando il quadro demografico delineato da Carlo Livi, che fa ascendere la
popolazione dell'isola fino a circa 430.000 abitanti (cifra sicuramente
ridimensionata dalle contingenze belliche e dalla peste), Ortu conclude che il
Giudicato d'Arborea poteva contare non solo su risorse demografiche, ma anche
su cerealicoltura, olivicoltura, viticoltura, frutticoltura, pastorizia, sale,
pesca e artigianato, onde reggere il tremendo urto contro la potenza catalana
(si veda anche il recentissimo volume del giovane Andrea Garau, Mariano IV d'Arborea
e la guerra nel Medioevo in Sardegna, prefazione di Lorenzo Tanzini,
Condaghes, Cagliari, 2017, apparso nella collana "Su fraile de
s'istòricu-L'officina dello storico", diretta da chi scrive).
Storia della Sardegna e storia della penisola
iberica. La storia del
Giudicato d'Arborea ha termine nel 1409, con la battaglia di Sanluri, in cui il
visconte Guglielmo di Narbona, pronipote di Beatrice d'Arborea, è sconfitto da
Martino il Giovane. Viene creato il Marchesato di Oristano che va ai Cubello, imparentati
con la famiglia giudicale. Il feudo passa quindi a Leonardo Alagon che però ben
presto entra in urto col viceré Nicola Carroz. Echeggia ancora una volta il
grido di "Arborea, Arborea!". Vincitore nella battaglia di Uras
(1470), Alagon è però definitivamente sconfitto nella piana di Macomer (1478) e
muore nella prigione di Jàtiva.
Il libro di Ortu è tuttavia più ricco ed articolato di
quanto emerge soprattutto da queste ultime considerazioni. Egli si sofferma in
tante intense pagine non solo sulla nuova personalità giuridica del Regnum
Sardiniae, sull'introduzione del diritto regio catalano-aragonese, ma anche
sulla storia della penisola iberica tout-court, attrraversata, fra
l'altro, dallo scontro fra Monarchia aragonese e quella castigliana e dalle epiche lotte dei contadini, i pagesos
de remença. Ortu parla di heretats e di baroni catalani impegnati a
vessare, di un intreccio e di una sovrapposizione perversa fra ruoli e figure
dei feudatari e ministri regi catalano-aragonesi che nell'isola si abbandonano
ad illeciti d'ogni sorta. Accuratissima la carta dei feudi che figura nel
volume.
Importanti le pagine sul pattismo, sulla logica del do
ut des che i Parlamenti iberici cercano di instaurare con i sovrani. Da
questo pattismo, scrive Ortu, discende quello rurale che si stabilisce tra
feudatari e comunità di villaggio e che si manifesterà lungo i secoli
attraverso le contrattazioni suggellate dai Capitoli di grazia: testi
che accompagnano le vicende dell'isola fino all'esplosione della rivolta antiassolutistica
ed antifeudale del 1793-96, guidata da Giovanni Maria Angioy.
Infine, Ortu è forse l'unico studioso che, per mettere
a punto un quadro d'insieme, ha affrontato non solo i nodi delle strutture
socioeconomiche, le vicende politiche, diplomatiche e militari ma anche il
manifestarsi dell'arte, della pittura, della scultura, dell'architettura
catalana. Un'opera fondamentale, dunque, che le ricerche storiche ed il
dibattito storiografico dovranno tenere nel debito conto per molto tempo.
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