Placido Cherchi e la perdita della presenza – Dati e cifre sul collasso del Pianeta - Catastrofismo o realismo? – Il contributo della rivista “Lancet” – Prendiamo in mano il nostro destino.
Placido Cherchi e la perdita della presenza.
Pensare l’Apocalisse, la fine del mondo - e dunque anche della Sardegna - per l’infuriare
della siccità e di molteplici emergenze ambientali, non significa
necessariamente cadere nel catastrofismo, nella rassegnazione, nel fatalismo o,
peggio, in un menefreghismo funzionale alle strutture dominanti dei
combustibili fossili.
La fine del mondo
è il titolo di un libro lasciato incompiuto dall’etnologo Ernesto De Martino
che fu anche professore nell’Università di Cagliari. Sull’opera demartiniana si
esercitò, com’è noto, l’acume del caro e compianto Placido Cherchi, docente, filosofo,
studioso di temi filosofici, etnoantropologici ed artistico-estetici, autore, fra
l’altro, di un’importante monografia su Paul Klee. Cherchi, scomparso nel 2013,
è stato ricordato in un convegno molto stimolante, tenutosi a Cagliari il 26
settembre di quest’anno, promosso da un insieme di organismi (fra cui la
Fondazione Sardinia, di cui Placido faceva parte) ed organizzato da Antonello Zanda e da altri.
Il
concetto demartiniano di perdita della
presenza denota il rischio di un pressoché totale dissolvimento
dell’identità, la prospettiva apocalittica che può incombere sulla singola
persona, sui luoghi e sulle comunità tradizionali. Queste ultime rispondevano
un tempo con l’attività salvifica dello sciamano, il Signore del limite (al riguardo è giusto rinviare al titolo di un
altro volume di Placido): lo sciamano era incaricato di oltrepassare un varco, di
affrontare gli spiriti maligni, quindi di ritornare da quella dimensione per
fornire una risposta contro la minaccia che gravava sulle persone o su
un’intera società. Ci sembra quasi superfluo ribadire che, nel contesto odierno,
una replica alla squassante crisi economica ed ambientale, alla crescente
disuguaglianza sociale non è pensabile o proponibile nei termini di una prassi
dell’esorcismo. Ma, in ogni caso, quello che le culture popolari, tradizionali,
compresa quella sarda, hanno il grande merito di insegnarci è che si rende
indispensabile una nostra risposta sul piano innanzitutto spirituale e
culturale. Occorre in primo luogo pensare a nuove forme di coesione, di solidarietà, di
sorellanza e fratellanza - fraternité è uno dei tre valori basilari della
Rivoluzione francese - per approdare ad un progetto di rigenerazione morale e
di liberazione.
Carestie,
malattie, guerre e distruzioni hanno afflitto per secoli l’umanità; pensiamo
solo, per fare qualche esempio, alla peste che nel Medioevo condusse alla
tomba, fra gli altri, i giudici Mariano IV ed Eleonora d’Arborea; alla
pestilenza del 1652-57 in Sardegna; alla poco conosciuta e studiata hambre y epidemia che nel 1681 fu in
grado di falcidiare quasi un terzo della popolazione isolana; per non parlare
dei 6.000 sassaresi, su 25.000 abitanti, scomparsi in seguito al colera del
1855, su cui Enrico Costa ci ha lasciato pagine vive, palpitanti, che ricordano
almeno in parte quelle di manzoniana memoria. Nella sconfitta dell’Impero azteco
giocò un ruolo essenziale l’alterazione
di rapporti ecologici determinata dai Conquistadores
quali apportatori di malattie infettive (come ha sostenuto William H. McNeill
in La peste nella storia). Di fatto però non si delineava, oltre la
percezione e la coscienza di allora, il rischio, che avvertiamo oggi, di un
Pianeta dove ampie porzioni di continenti potrebbero diventare inabitabili nel
giro di pochi decenni.
Dati e cifre sul collasso del Pianeta.
Negli Stati Uniti ha suscitato un vivace dibattito l’articolo che David Wallace
Wells ha pubblicato sul “New York Magazine” (riportato col titolo La fine del mondo su “Internazionale”
del 29 settembre 2017). Dopo aver discusso con decine di esperti, Wallace Wells
ha richiamato la nostra attenzione, in particolare, sullo scioglimento dei
ghiacci che nel Mare Artico consentirebbe un’evaporazione del carbonio, sotto
forma di metano, in misura 34 volte superiore all’anidride carbonica
sprigionata dal riscaldamento globale. Inoltre gli scienziati sospettano che in
Siberia siano intrappolati i batteri del vaiolo e della peste bubbonica: un
concentrato di malattie potrebbe sciogliersi nel suolo con esiti devastanti. La
crescita delle temperature permetterà alla zanzara che provoca la malaria di riprodursi molto più
rapidamente.
Inoltre
l’acidificazione degli Oceani per l’assorbimento del carbonio è destinata ad
uccidere intere popolazioni di pesci; per non parlare delle emergenze legate
all’innalzamento del livello dei mari. Sono ben 600 milioni le persone che
vivono in territori e centri abitati che sorgono a meno di 10 metri sopra il
livello delle acque. Infine il World Meteorological Organization ha segnalato
che la concentrazione di CO2 resterà sopra le 400 parti per milione e non subirà
significativi ridimensionamenti per diverse generazioni.
Catastrofismo o realismo? Wallace
Wells non può essere considerato, a ben vedere, catastrofista. Egli cita le
temperature di El Salvador, del Barhein, della città di Karachi e conclude che
certi paesi potrebbero ben presto diventare inabitabili nel giro di cento anni
ed anche meno. Se riflettiamo però sui picchi già raggiunti dalle temperature
nel 2017, dovremmo interrogarci su quante stagioni non solo estive saremo ancora
in grado di sopportare a fronte di una previsione scientifica che indica un
aumento costante ed implacabile delle temperature e dei connessi indici di
umidità.
Il contributo della rivista “Lancet”.
L’inquinamento atmosferico da smog e particolati presenti nell’aria, unitamente
a quello derivante dall’uso domestico di combustibili fossili, è responsabile
di 6,5 milioni di morti all’anno, dovuti in gran parte a malattie
cardiovascolari e respiratorie. A sua volta l’inquinamento idrico provoca 1,8
milioni di decessi annui causati da infezioni gastrointestinali e da parassiti.
A ciò si aggiungano 0,8 milioni di morti annui per tumori contratti da tossine
e sostanze cancerogene presenti nei luoghi di lavoro. “Lancet” ha comunicato
dati della Commission on Pollution and Health, progetto biennale che ha
coinvolto 40 esperti di tutto il mondo. S’intende che non sono solo queste le
cifre riportate nell’articolo di Wallace
Wells e su “Lancet”.
Prendiamo in mano il nostro destino.
Da tutti questi elementi bisogna partire, non per arrenderci, ma per reagire e
per lottare. Non dobbiamo supinamente inchinarci alla dimensione sovrastante
della globalità, a quanto determinati scenari ci fanno intravvedere, alle cifre
sopra riportate. Seguendo l’insegnamento di Antonio Simon Mossa, si rende
invece indispensabile la capacità di coniugare una visione globale,
cosmopolitica, con l’attenzione e la cura per i singoli luoghi. Ognuno di essi,
come la singola persona umana, ha caratteri di irripetibilità, non è
sostituibile, non è intercambiabile; in ultima analisi presenta un carattere
che non è fuori luogo chiamare di sacralità: questo tema è emerso (con molti
altri) nel seminario internazionale su “Perspectives on Environment, Social
Justice and Mass-media in the Age of Anthropocene”, tenutosi nel giugno di
quest’anno presso l’Università di Sassari ed organizzato anche con la
collaborazione della Fondazione Sardinia. Affermare questa sacralità - secondo
quanto hanno posto in risalto autorevoli studiosi, ben lontani da mitizzazioni
e idolatrie - non significa assolutamente cadere nel fondamentalismo e
nell’intolleranza.
Coltivare
la cura dei luoghi, con il loro patrimonio di biodiversità, da considerare
nell’interrelazione con la ricchezza costituita dalla pluralità di lingue e
culture, rappresenta il primo, significativo, irrinunciabile passo per non
cedere di fronte a problemi terrificanti. La Sardegna, in rapporto con le nazioni
senza Stato dell’Europa (dalla Scozia all’Irlanda del Nord, dai Paesi Baschi
alla Catalogna ed alla Corsica) può e deve impegnarsi per dare il suo
contributo alla costruzione di un argine contro la deriva ed il baratro verso
cui sta marciando il Pianeta. Occorre un New
Deal capace di delineare una riconversione economica, produttiva,
agroindustriale in chiave ecocompatibile, imperniata su un totale rigetto dei
combustibili fossili, di gigantismi e monopoli, per approdare ad un sistema non
“lineare”, bensì “circolare”, in grado cioè di restituire alla Terra quanto le
viene tolto: è questa la prospettiva verso la quale è essenziale procedere.
Ormai non si tratta più di nodi che riguardano solo scienziati, esperti,
ambientalisti e “verdi”. Come ci ha
spiegato Naomi Klein in Una rivoluzione
ci salverà, la vera posta in gioco è la sopravvivenza della vita sul
Pianeta, su ogni territorio ormai minacciato, dunque anche sulla Sardegna. La
lotta per l’autodeterminazione è inscindibile dai nodi epocali dell’ambiente. Il
caro e compianto Vincenzo Migaleddu, medico radiologo ed ambientalista di cui
avvertiamo acutamente la mancanza, ci aveva raccomandato una meditazione seria
e profonda su Laudato si’,
l’enciclica di Papa Francesco. Scienziati ed intellettuali del Terzo Mondo,
come gli indiani Vandana Shiva e Amitav Ghosh (autore de La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile), per
fare solo alcuni esempi, ci hanno illuminato e spronato: è giunto il momento di
organizzarci, di prendere in mano il nostro destino.
Commenti