CAGLIARI “CITTÀ METROPOLITANA” MENTRE LA SARDEGNA CORRE VERSO IL SUICIDIO DEMOGRAFICO: QUALI ALTERNATIVE? di Federico Francioni






Sommario: Premessa – La situazione internazionale - La sfida – L’economista Thomas Robert Malthus smentito dallo storico John Day – Alcune tappe della dinamica demografica sarda - La forza simbolico-politica dall’Utopia – Una nuova capitale della Sardegna nell’ambito di un progetto più vasto - Conclusioni. 

Premessa: si è discusso di “città metropolitana”, ma non della minaccia di “genocidio culturale” che incombe sulla Sardegna. Le polemiche su Cagliari e/o Sassari come città metropolitane, unitamente al dibattito in Consiglio regionale sulla “riforma” degli Enti locali,  hanno - in genere - ignorato, trascurato o non hanno posto adeguatamente in risalto l’estrema, tragica gravità del problema demografico: l’isola è uno dei territori del pianeta col tasso meno elevato di natalità. Lo ha notato, fra gli altri, David Kertzer, storico americano, studioso della famiglia in Italia, vincitore del prestigioso Premio Pulitzer, il quale si è interrogato, in particolare, sui modelli culturali che guidano i percorsi di vita e le decisioni delle donne in Sardegna. Ma già negli anni sessanta Antonio Simon Mossa, geniale architetto ed intellettuale poliedrico, affermò - non era esagerazione, slogan o “sparata” la sua - che su questa terra incombe la minaccia  di “genocidio culturale”.  Il rischio è che potrebbe essere la nostra comunità a contribuire, in modo decisivo, al proprio annientamento, alla scomparsa pressoché completa di una storia, di una lingua, di una cultura, di una civiltà. Ciò si potrà verificare grazie anche al secolare, decisivo, letale contributo di ceti dirigenti politici ed intellettuali profondamente estranei - dal punto di vista psicologico ed esistenziale, prima che politico-ideologico - a determinate tematiche.

La situazione internazionale. Da tempo in tutto il mondo la popolazione tende sempre più a concentrarsi nelle città; alla crescita delle aree urbane corrisponde l’abbandono di quelle rurali. Lo spopolamento investe particolarmente territori di Nord America, Europa, Russia e Giappone: si vedano al riguardo le cifre fornite da State of World Population 2011 dell’UNFPA (United Nations Populations Fund), ripresa (si veda la p. 68) dall’importante  ricerca Comuni in estinzione. Gli scenari dello spopolamento, in Idms, Indice di deprivazione multipla della Sardegna, 2013. In questo studio figurano pagine di Antonello Angius, di due docenti dell’Ateneo cagliaritano, Gianfranco Bottazzi e Giuseppe Puggioni (da tempo impegnato nello studio di questa tematica) e di altri autori.

La città cinese di Chongqing, come ha scritto Salvatore Settis, è passata da 600.000 abitanti del 1930 ai 32 milioni di oggi. Il fenomeno dello spopolamento assume inoltre il rilievo specifico dello svuotamento di Venezia, studiato dallo stesso Settis, ma anche centri storici dell’isola, come nel caso di Alghero e di Sassari, perdono abitanti. Senza una critica calzante dei mostri urbani attuali non saremo assolutamente in grado di prefigurare e progettare alcunché di positivo per il futuro. L’assunzione acritica dei modelli dominanti potrà condurre solo a versioni minuscole e penose delle megalopoli esistenti. Cagliari è già capoluogo del sottosviluppo, nel senso più deteriore del termine. «La nostra Isola del futuro – ha scritto il 12 dicembre Salvatore Cubeddu nel sito della Fondazione Sardinia ed in quello di “Sardegna soprattutto” - sarà una Città-Stato con il nome di Cagliari e sullo sfondo un territorio in dissolvenza  storicamente chiamato Sardegna»; con relativa scomparsa, dunque, anche di una parvenza di autonomia regionale. Ma si veda anche (cfr. “La Nuova” del 24 ottobre 2015) quanto ha scritto in proposito  Giovanni Maciocco,  già preside della Facoltà di Architettura dell’Università di Sassari, sede di Alghero, che ha preso le distanze dal concetto di città metropolitana.  

La sfida. La grande, vera sfida che la società sarda dovrà affrontare nei prossimi decenni è quella che riguarda la dinamica demografica, la quale va assolutamente considerata in relazione ad una più ampia dimensione storica, socioeconomica, politica, culturale e, soprattutto, ad un’idea di pianificazione e di progetto. Non si tratta di un problema che attanaglia solo le popolazioni dei Comuni dell’isola a rischio di scomparsa e di estinzione pressoché totale.

Da molto tempo il nodo che si vuole qui esaminare è stato posto lucidamente da vari amministratori, fra i quali in questa sede vanno almeno citati Bachisio Porru (già sindaco di Olzai) e Paolo Pisu (già sindaco di Laconi). Più di recente, nello scorso novembre,  il tema è stato affrontato nel convegno di Sennariolo ad opera specialmente del sindaco di questo Comune, Giambattista Ledda e di Omar Hassan, sindaco di Modolo, presidente  della Consulta dei piccoli Comuni, nonché da altri amministratori. Lo stesso problema affonda le sue radici in secoli endemicamente caratterizzati da spopolamento e sotto-popolamento. Una situazione ben diversa da quella di determinate regioni del Meridione d’Italia, che sono stati e sono invece “piene” di abitanti.  Un altro buon motivo per non edulcorare e per non annegare i tratti specifici della questione sarda in un unico calderone o magma indistinto, chiamato genericamente Mezzogiorno. Operazione in passato - ed ancor oggi - propria di certa intellettualità accademica, poco o niente sensibile alle rigorose analisi di Antonio Gramsci, che ha sempre distinto Napoletano, Sicilia e Sardegna, per la quale egli aveva posto a Emilio Lussu il quesito concernente l’esistenza - o meno - di una valenza “nazionale”, in senso sardo, di determinate spinte e rivendicazioni. Purtroppo lo stesso Bottazzi ha sostenuto che la dimensione sarda non presenta un suo profilo originale, ma è Meridione, puramente e semplicemente.  Una lettura che conduce al totale appiattimento: come si fa a comparare Cagliari e Sassari con la realtà napoletano-vesuviana, da secoli fra le aree con densità di popolazione fra  le più alte d’Europa? Se si parte da premesse teoriche errate sarà possibile mettere a punto adeguate strategie di salvezza?

L’economista Thomas Robert Malthus smentito da John Day. Day, storico franco-americano, grande e sincero amico della nostra isola, cui ha dedicato anni di studio e pagine dense di precisi dati quantitativi (si pensi soprattutto alle sue indagini sui villaggi scomparsi) ritiene che le vicende demografiche della Sardegna costituiscano la smentita più eloquente delle posizioni assunte dall’inglese Malthus (1766-1834): com’è noto, per questo autore l’aumento delle risorse naturali e materiali, indispensabili per la sussistenza e la sopravvivenza, non riesce a reggere, a seguire il tasso naturale di crescita delle popolazioni. Catastrofi naturali, carestie, pestilenze, guerre svolgono il triste, ma inevitabile ruolo di ricondurre la situazione ad equilibri meno precari. Secondo Malthus è indispensabile assecondare la ricerca di tale equilibrio non facendo, fra l’altro, l’elemosina ai poveri e raccomandando la castità alle coppie che non siano in grado di mantenere i propri figli. Queste tesi suscitarono violente critiche (si pensi a quelle dei socialisti utopisti Charles Fourier e Pierre-Joseph Proudhon, così come di Marx ed Engels) ma allo stesso tempo incontrarono  sostanziali e perduranti consensi.

Day invece pubblica - in “Annales” (n. 4, 1975), la rivista di Marc Bloch, Lucien Febvre e Fernand Braudel, una delle più prestigiose nel panorama della storiografia internazionale - un saggio in cui si dimostra che, fra malaria, presenza-assenza di guerre e di altre calamità, la Sardegna è, comunque, perennemente spopolata e/o sotto-popolata. Una carenza di popolazione si accompagna ad un’ampia disponibilità di territori solo molto parzialmente sfruttati e non adeguatamente valorizzati.

Se in futuro si cambiasse rotta, ciò avverrebbe a tutto vantaggio dell’isola che potrebbe collocare - se non altro in importanti nicchie del mercato globale - risorse di pregio, inconfondibili, uniche, come, per esempio, il grano Cappelli: ne avevamo parlato nel novembre 2014 in un incontro ad Alghero, presso il Dipartimento di Architettura, presentando la rivista “Camineras” ed affrontando il nodo dello spopolamento, con l’economista Ivan Blecic, Tonino Budruni (docente e storico), Ninni Tedesco (direttrice della rivista); erano intervenuti, fra gli altri, Paolo Mugoni (redattore di “Camineras”), l’economista Andrea Saba e Tonino Baldino (ex-sindaco di Alghero) il quale metteva in luce già da allora che Cagliari, nella veste di città metropolitana, è destinata ad assorbire gran parte dei finanziamenti dell’Unione Europea, con relativa accentuazione degli squilibri esistenti.

Sarà indispensabile assumere consapevolezza piena - per il passato, il presente e, soprattutto, per il futuro - che determinate realtà demografiche non possono, non devono essere analizzate indipendentemente dai programmi e dalle opzioni politiche dei ceti dirigenti, italiani e sardi; si tratta di individuare al riguardo una precisa gerarchia di responsabilità. Solo così potrà essere esaminato e compreso il ruolo dei soggetti in gioco per creare e mantenere quei meccanismi della dipendenza che hanno reso la nostra isola un “laboratorio di storia coloniale” (espressione coniata da Day). Lo spopolamento, va ribadito, può essere affrontato solo con politiche ad hoc che siano parte integrante di un più ampio progetto di fuoriuscita dalla crisi, di rilancio, per l’emancipazione economica, socioculturale e politica della Nazione sarda.

Alcune tappe della dinamica demografica sarda. Risulta oltremodo difficile ipotizzare la consistenza globale della popolazione durante il dominio romano: si è pensato che, durante il I secolo dopo Cristo, gli isolani fossero all’incirca 300.000 (circa 12 per Kmq). Attenzione, una densità bassa in rapporto a quella siciliana ed al Sud dell’Italia, alta però se paragonata al numero dei sardi nel Medioevo ed in alcuni tratti dell’Età moderna. 

Agli inizi del Trecento la Sardegna è popolata da non più di 190.000 persone. Mai regione d’Europa è stata, più della nostra isola, duramente provata dalle carestie,  dalle epidemie e dalla violenza del tardo Medioevo: lo sostiene Day. Tra la fine del XIV ed i primi anni del secolo successivo, quando muore, colpita dalla peste, Eleonora d’Arborea, lo spopolamento rurale tocca il punto più alto e tragico. Ma, avverte Day, si tratta delle ultime ripercussioni di un movimento cominciato in piena “prosperità pisana”: espressione che, con tutta evidenza, va rigorosamente virgolettata.

Nel Seicento, il saldo finale è passivo: infatti, intorno al 1627, la popolazione è di 310.000 unità che diventano 260.551 nel 1698. La Sardegna, fortunatamente, non conosce la  peste di manzoniana memoria (quella del 1630). Tuttavia nel 1641 i sardi, in tutto, non dovevano essere più di 300.000. Il 1644 è un anno di carestia; il 1647 è segnato da un’invasione di cavallette che non è la prima e non sarà, purtroppo, neppure l’ultima, se appena pensiamo a quella del secondo dopoguerra, filmata dal regista ed etnoantropologo visuale Fiorenzo  Serra. Soprattutto, del 1652-57 è la decisiva cesura stabilita dalla grande pestilenza: Sassari perde, nei confronti di Cagliari, quel primato demografico che non riconquisterà più, pur riavvicinandosi all’attuale capoluogo regionale tra fine Ottocento e primi del Novecento, come sosteneva il sindaco di allora, Pietro Satta Branca (lo scriveva Manlio Brigaglia nel suo libro sulla classe dirigente sassarese). Del 1680-81 è un altro durissimo colpo per i sardi, già duramente provati: si tratta della hambre y epidemia che fa scomparire circa 1/3 degli abitanti. Un quadro più preciso viene dagli atti degli Stamenti, l’antico Parlamento sardo di ordini privilegiati, del quale chi scrive (con altri studiosi) ha curato l’edizione critica su incarico del Consiglio regionale.

Nel Settecento la crescita è continua: in Sardegna non arriva la peste di Marsiglia del 1720-22 che fa sparire la metà della popolazione. Nell’Ottocento la dinamica demografica continua ad essere positiva, nonostante Sassari venga colpita dal colera che, nel 1855, uccide ben 6.000 sassaresi su 25.000. Pur in presenza di lebbra (sì, proprio la lebbra), malaria, tracoma ed altre malattie, alla fine del XIX secolo gli abitanti sono circa 830.000, come emerge dai lavori del primo Congresso dei Sardi, tenutosi nel 1914 in Roma, a Castel Sant’Angelo: lo abbiamo ricordato il 27 ottobre del 2014 in un incontro-dibattito nell’Università di Sassari, con il vicesindaco Gianni Carbini ed inoltre con Attilio Mastino, Gianfranco Ganau, Serafina Mascia, Paolo Pulina, Paolo Fois, Omar Chessa, Cubeddu e Vanni Lobrano.

Nel Novecento la crescita prosegue, nonostante alle malattie già ricordate si aggiunga, ai primi del secolo, un aumento dei casi di lebbra, per non parlare della tubercolosi che, nei primi decenni, colpisce particolarmente Sassari, per la quale, infine, negli anni novanta, si delinea la crescita zero. Ma per tanti altri centri la decrescita era cominciata dopo il 1951 con imponenti, quasi biblici flussi migratori, che si sommavano a quelli che, durante l’età giolittiana,  si erano diretti verso l’America Latina; il picco, per l’Italia di allora, è costituito dal 1913. Un aspetto dell’emigrazione poco studiato, secondo la psichiatra Nereide Rudas, riguarda le migliaia di sardi finiti nei Cim (Centri di igiene  mentale).

Fino al 1951 si era registrato un sostanziale aumento nella popolazione di tutti o quasi i Comuni sardi. In seguito cominciano a prendere corpo i ben noti fenomeni di concentrazione, soprattutto nell’area cagliaritana, in quella sassarese, più di recente in quella di Olbia; in generale, si verifica uno spostamento della popolazione verso le coste e verso le due principali città - Cagliari soprattutto - ma non si tratta di percorsi e traiettorie uniformi, come viene dimostrato dai dati e dalle tabelle della già ricordata ricerca Comuni in estinzione. Nel Capo di Sopra paesi importanti accusano emorragie di notevole consistenza: impressionano le cifre che accompagnano il percorso demografico di centri tradizionalmente operosi, dotati - e non da ieri - di energie imprenditoriali, come Thiesi, Bonorva, Ozieri, Berchidda.  Comuni come Uri crescono invece assorbendo i transfughi di quelli viciniori.

In Provincia di Nuoro non sono solo Bitti ed Orune a perdere abitanti (diverso il caso di Orgosolo), ma anche Aritzo, Desulo e Tonara, da tempo noti per il turismo montano (e non solo). Ultimamente il sindaco di Orgosolo Dionigi Deledda è stato fra i pochi, mi pare, a mettere in evidenza che il nodo da affrontare e da sciogliere riguarda non la creazione di una o due città metropolitane, ma proprio il riequilibrio demografico. Nel Capo di Sotto una realtà che andrebbe studiata, per esempio, è quella di Villacidro - dove non a caso si verifica un incremento di popolazione - evidentemente in grado di mantenere un sostanziale equilibrio fra settori economici diversi (il commercio, il centro della rete distributiva di Nonna Isa, agricoltura, pastorizia), nonostante sia stata colpita dalla crisi di una fabbrica come la Keller.

Nel convegno promosso dalla Cisl e tenutosi a Mandas nell’ottobre del 2014 è stato ricordato che i piccoli Comuni isolani sono 313 su 377; 258 hanno meno di 3.000 abitanti; 31 sono quelli a rischio estinzione in un arco di tempo che va dai 10 ai 60 anni. Pur tuttavia queste realtà - cosiddette minori - hanno giacimenti archeologici,  tesori d’arte e produzioni che potrebbero essere quanto mai valorizzate se appena si pensasse ad un tessuto produttivo, connettivo sardo: dovrebbe essere proprio questo l’obiettivo prioritario di ogni Giunta regionale.  In effetti  vengono stretti accordi con l’emiro del Qatar - che finanzia sottobanco l’Isis - e si firmano protocolli su Matrìca con un colosso come l’Eni, il primo a non rispettarli ed a sganciarsi. Una politica economica che non punti alla vocazione quasi naturale della Sardegna per la piccola struttura - agropastorale, artigianale, manifatturiera, industriale - e che non sia rigorosamente antimonopolistica vedrà infine la nostra società depauperata anche di uno straccio di autonomia decisionale,  come in effetti è avvenuto.  

Si è detto del convegno di Sennariolo in cui è stato ripercorso il calvario dei piccoli Comuni: chiudono l’ufficio postale, la stazione dei carabinieri, lo sportello bancario, la farmacia, la scuola elementare, il negozio di alimentari;  è già molto se resiste qualche bar: le alternative? Fiscalità di vantaggio e alleggerimento del patto di stabilità, tanto per cominciare:  sindaci di opposti schieramenti hanno più volte ribadito che solo uomini spinti da un mix di demenza e scelleratezza potevano pensare ad una legge che impone ad un ente di accantonare soldi - peraltro in cassa - per pagare la piccola impresa che ha eseguito qualche lavoro pubblico. Ma tutto ciò fa parte di quelle sciagurate politiche di austerity che tanto piacciono all’Unione Europea, al centro destra ed al centro sinistra e su cui neanche la cultura sardista e indipendentista ha mai fatto sufficiente chiarezza. Solo gli indipendentisti scozzesi e catalani le hanno condannate drasticamente.

La forza simbolico-politica dell’Utopia. Un’alternativa allo svuotamento della Sardegna - puntando sull’idea di una nuova capitale - può essere delineata sia sul piano utopico, sia su quello progettuale. Utopia intesa non nel senso di un sistema sociale  ideale, di un governo perfetto, fondato sulla comunione dei beni e delle donne, secondo una concezione che risale a Platone, prosegue con Thomas More, con Tommaso Campanella, per arrivare ai grandi utopisti dell’Ottocento (cui Marx deve molto di più di quanto sia disposto ad ammettere). Utopia, piuttosto, come prospettiva di uguaglianza, di giustizia, di speranza, da perseguire sulla base di quelle conquiste - economiche, sociali, politiche, culturali, spirituali - che hanno caratterizzato diversi cicli della storia dell’umanità: dalla predicazione di Gesù al primo cristianesimo, dai movimenti religiosi alle sette ereticali del Medioevo ed oltre, con la loro carica di millenarismo, sedimentatasi nella cultura popolare, presente nelle analisi dei gramsciani  Quaderni del carcere; le due rivoluzioni inglesi del XVII secolo, quella del 1649 e la seconda, quella del Bill of Rights (1688-89); la rivoluzione americana e l’Ottantanove francese, che lo storico Robert Roswell Palmer considera come parte integrante di un’unica “rivoluzione atlantica”; per giungere all’Ottobre russo del 1917. Rotture epocali, che sono state indubbiamente accompagnate da un carico più o meno accentuato di violenza, da spargimenti di sangue, nonché dal rischio, ricorrente - ed assai esplicito con lo stalinismo - del rovesciamento dell’utopia nel suo esatto contrario, la distopia, cioè l’utopia negativa. Quanto fin qui detto si riscontra sostanzialmente in un’opera affascinante e significativa: Utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia (pubblicata nel 1997 dall’editore Dedalo di Bari), che si deve ad Arrigo Colombo, animatore del Centro interdipartimentale di studi sull’utopia dell’Università di Lecce.

Di fronte ai drammatici problemi dell’isola, si rendono indispensabili proposte forti, decise, radicali, da formulare sia sul terreno dell’utopia, sia su quello del progetto. Non possiamo limitarci solo a chiedere la fondazione di una nuova capitale della Sardegna (versante utopico); l’idea era emersa ad opera della cultura sardista, secondo una proposta mutuata negli anni settanta da determinati ambienti sindacali (si veda al riguardo il libro L’ora dei Sardi, curato da Cubeddu, pubblicato nel 1999 dalla Fondazione Sardinia di Cagliari). Occorre abbinare a tale istanza un progetto, parola odiata dalle oligarchie autoreferenziali dominanti, che hanno ormai soggiogato tutti i partiti, chiuso le sezioni, impedito il dibattito e la partecipazione della base.

Una nuova capitale della Sardegna nell’ambito di un progetto più vasto. A questo punto potrebbe balzare in primo piano il ruolo del Dipartimento di Architettura dell’Università di Sassari, sede di Alghero o di Ingegneria dell’Ateneo cagliaritano. In sinergia con altri soggetti, come la Fondazione Sardinia - o la stessa Unione dei piccoli Comuni - si potrebbero promuovere ricerche, tesi di laurea, di dottorato, per studiare il problema a partire da una riflessione, per esempio, sull’esperienza storica, architettonica ed urbanistica di Brasilia, che venne costruita durante la presidenza di Joscelino Kubitscheck, su progetto di Oscar Niemeyer: una vicenda che, per ovvie ragioni, non può essere meccanicamente applicata allo specifico contesto sardo. 

Ma si potrebbe pensare anche ad indagini di economisti, sociologi, architetti, urbanisti, ingegneri civili e dei trasporti, che investano paesi e territori del centro della Sardegna, fra i quali, con razionalità, potrebbe essere scelta, dopo adeguati interventi e con opportune riqualificazioni, la nuova capitale dell’isola.  Si potrebbe anche pensare ad un raccordo, su vari piani (dall’edilizia al sistema delle comunicazioni stradali) fra centri dell’interno, che possa condurre a quella “città ambientale” autorevolmente teorizzata ed auspicata da Maciocco. 

Un’altra ipotesi, sottolineata da Cubeddu, potrebbe essere rappresentata dalla costruzione, presso il Monte Arci, di uno o più edifici come sedi sia del Congresso, cioè dell’Assemblea legislativa del Popolo sardo, sia dell’Esecutivo: si tratterebbe di un primo nucleo della futura “Città della Sardegna”.  

L’importante è individuare - con una miscela di indagini, di tipo sia qualitativo che quantitativo - un Comune, un gruppo di Comuni o un territorio che ogni cittadina o cittadino possa raggiungere, partendo da qualsiasi luogo della Sardegna, in un’ora, un’ora e mezzo al massimo. Ciò dovrebbe essere infine oggetto di accorta disamina da parte di un’Assemblea costituente, tema da riprendere e rilanciare dopo che intorno a questa prospettiva aveva preso corpo, negli anni novanta / inizi del 2000, un movimento poi purtroppo frammentatosi ed andato verso la dispersione.    

Una borsa di studio, un premio, un concorso di idee potrebbero diventare economicamente appetibili non solo con donazioni personali, ma anche lanciando una sottoscrizione, attesa, fra l’altro, la pressoché completa indisponibilità della Fondazione Banco di Sardegna verso richieste di finanziamento avanzate per ben motivati progetti culturali.   

L’idea di un riequilibrio affonda le sue radici in un ordine di considerazioni storiche che non riguarda solo ed esclusivamente la demografia. Sin dal Medioevo, proseguendo con l’Età moderna, per arrivare alla contemporaneità ed alla situazione presente, recarsi a Cagliari ha costituito per gran parte degli abitanti dell’isola un sacrificio insopportabile, una penalizzazione ormai non più tollerabile.  Gli atti degli Stamenti, l’antico Parlamento sardo - che ho avuto l’onore e l’onere di curare per conto del Consiglio regionale - dimostrano inequivocabilmente che la collocazione geografica di Cagliari e la sua lontananza da altre parti dell’isola determinava quasi sempre la rinuncia, per moltissimi, per i più, a recarsi colà per adire le sedi giudiziarie più alte onde vedere soddisfatte, almeno in parte,  le proprie istanze (cfr. in particolare Il Parlamento del viceré Nicola Pignatelli duca di Monteleone (1688-89), a cura di F. Francioni, Consiglio Regionale della Sardegna, Cagliari, 2015, 3 tomi di circa 670 pagine l’uno). Per non parlare dell’ancor più grave e penalizzante centralizzazione su Cagliari del commercio granario.      

Bisogna tornare in qualche modo all’esperienza dell’industriale Adriano Olivetti e dell’economista sassarese Gavino Alivia, che avevano concertato un piano per il ripopolamento della Nurra (lo ricordava Giulio Sapelli in un volume sull’impresa nel Nord Sardegna). Occorre una riflessione non superficiale sulla cultura delle città, partendo dalle pagine di Lewis Mumford, che era stato ripreso dal nostro Michelangelo Pira ne La rivolta dell’oggetto. Lo stesso Pira si interrogava su Cagliari, su ciò che la rende davvero bella, “Città del Sole” (si pensi al libro di Francesco Alziator) e sulle sue brutture. Cagliari ha comunque le caratteristiche geofisiche, ambientali, artistiche e culturali per diventare una delle autentiche capitali del Mediterraneo (cfr. Cagliari tra passato e futuro, a cura di G. G. Ortu, Cuec, Cagliari, 2004).

Si rende  altresì indispensabile una rilettura attenta di quanto l’economista, giornalista e ambientalista Giuseppe De Marzo ha scritto sulle cosiddette Casitas Auschwitz di Città del Messico, sugli squilibri, le contraddizioni, gli obbrobri dell’urbanesimo attuale. Occorre considerare i volumi di quegli studiosi - il geografo urbano Edward Soja e John Friedman, studioso delle città, ricordati da Maciocco - che sono critici dei modelli metropolitani oggi dominanti.

All’utopia va dunque affiancata una progettualità, che contempli: a) il rilancio dell’agricoltura e della pastorizia abbinato agli obiettivi strategici della sovranità alimentare ed energetica; b) la creazione e/o il rafforzamento di un tessuto industriale e produttivo locale  da avviare verso una riconversione ecocompatibile, incardinata sulla piccola impresa (si veda in proposito un succoso volumetto del già citato Sapelli); c) la realizzazione delle bonifiche a Porto Torres, Ottana, Macchiareddu, Porto Vesme, insomma, nei siti fra i più inquinati d’Europa (se non del mondo), aprendo così una concreta prospettiva di lavoro per i cassintegrati e per gli espulsi dai processi dell’industrializzazione selvaggia;  d)  un sistema bancario sardo; e) una rete commerciale che non sia dipendente dalla grande distribuzione, la quale dirotta verso il Nord della penisola e dell’Europa i profitti derivanti dalle spese e dai consumi dei sardi; f) il rifiuto netto dei monopoli calati in Sardegna, mossi solo dalla logica dello spremi e getta (la vendita di Versalis ed il tendenziale disimpegno dell’Eni dal progetto  Matrìca dovrebbero renderci quanto mai edotti che con i monopoli è bene non firmare protocolli che non vincolano mai il più forte); g) un piano di opere pubbliche, infrastrutture e trasporti in grado di collegare i vari territori, evitando una centralizzazione ormai esasperata su Cagliari (si tratta di un nodo saldamente intrecciato alla creazione di un nuovo polo di gravitazione dell’isola); h) il ripensamento ed il rilancio della cooperazione e del mutualismo che, per il ripopolamento, unisca, in particolare, donne sarde e donne immigrate, le quali possano usufruire del microcredito.

A questo punto sarebbe essenziale esaminare in qual modo potrebbe essere applicata alla Sardegna la visione del premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, che sosteneva la necessità di prestiti alle donne, per quanto povere, in quanto esse si fanno carico, si prendono cura - delle cose, dei problemi, delle persone - non solo della prole (cfr. il contributo di chi scrive, su “Camineras”, n. 3, maggio 2012, pp. 63-83, in particolare le pp. 67-69).

Appare evidente che i punti salienti di questa progettualità sono dettati non dalle logiche del liberismo selvaggio, ma da quelle di tipo keynesiano,  dall’esigenza di un New Deal di cui la Sardegna dovrebbe dotarsi, come ha più volte auspicato Cubeddu, per guardare con meno angoscia ad un futuro in cui la minaccia di spopolamento non pesi come oggi.  

L’Ocse ha riconosciuto come buona prassi quella seguita nello Stato finlandese. Nel giro degli ultimi vent’anni, nei territori dei Lapponi, con una densità di abitanti fra le più basse d’Europa, sono stati realizzati interventi cofinanziati in gran parte con fondi comunitari: agevolazioni fiscali ed incentivi per incrementare le nascite e per l’acquisto della prima casa; concessione di terreni a titolo gratuito; diffusione della banda larga; incentivi al telelavoro; accorpamento, integrazione e messa in rete dei servizi alle popolazioni locali;  incentivi per la creazione di reti pubblico-private; decentramento amministrativo delle funzioni pubbliche; decentramento dei servizi alle imprese; efficientizzazione del sistema dei trasporti; e-learning nelle scuole non soltanto dell’obbligo. I risultati, incoraggianti, costituiscono spunti validi anche per il nostro contesto.

Conclusioni. Le città metropolitana, quella voluta specialmente dall’assessore Cristiano Erriu, non ha incontrato fino ad oggi alternative credibili. I problemi della Sardegna non si risolvono nella scelta di Cagliari e/o Sassari, ma affrontando il nodo decisivo del riequilibrio demografico e territoriale. Sono state prospettate in questo articolo le seguenti, possibili scelte: 1) l’idea di una nuova capitale dell’isola; 2) la scelta di un paese al centro da riqualificare come nuova capitale; 3) un raccordo, una rifunzionalizzazione  fra piccoli Comuni dell’interno per una “città ambientale” come capitale;  4) l’edificazione di una nuova sede del Congresso (cioè del Parlamento) e dell’Esecutivo in un luogo strategico (la “Città della Sardegna”). Temi e problemi che richiedono approfondimenti, competenze specifiche ed anche interdisciplinari.

Quanto è possibile fare sul piano dell’indagine razionale non è invece spendibile immediatamente nella prassi politica “ufficiale”. Qualsiasi forza (indipendentisti compresi) si troverebbe in grave difficoltà nel gestire una proposta che potrebbe alienare simpatie e consensi elettorali nel Capo di Sotto. A ciò si aggiungano le gravi responsabilità di un ceto di intellettuali sostanzialmente teracu. Bisogna dunque fare in modo che tali proposte diventino oggetto di studio, di ricerca e che  possano collegarsi quanto prima al dibattito politico ed alla dimensione progettuale.

La possibilità di cominciare a studiare seriamente il problema è realizzabile.  Si tratta di suscitare entusiasmi ed energie soprattutto giovanili, con un concorso di idee, con un premio, con una o più borse di studio, per cominciare a indicare una prospettiva non avulsa da un più generale moto di radicale cambiamento.


                                                                                                         






















































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