CAGLIARI “CITTÀ METROPOLITANA” MENTRE LA SARDEGNA CORRE VERSO IL SUICIDIO DEMOGRAFICO: QUALI ALTERNATIVE? di Federico Francioni
Sommario: Premessa –
La situazione internazionale - La sfida – L’economista Thomas Robert Malthus
smentito dallo storico John Day – Alcune tappe della dinamica demografica sarda
- La forza simbolico-politica dall’Utopia – Una nuova capitale della Sardegna nell’ambito
di un progetto più vasto - Conclusioni.
Premessa: si è
discusso di “città metropolitana”, ma non della minaccia di “genocidio
culturale” che incombe sulla Sardegna. Le polemiche su Cagliari e/o Sassari
come città metropolitane, unitamente al dibattito in Consiglio regionale sulla
“riforma” degli Enti locali, hanno - in
genere - ignorato, trascurato o non hanno posto adeguatamente in risalto l’estrema,
tragica gravità del problema demografico: l’isola è uno dei territori del
pianeta col tasso meno elevato di natalità. Lo ha notato, fra gli altri, David
Kertzer, storico americano, studioso della famiglia in Italia, vincitore del
prestigioso Premio Pulitzer, il quale si è interrogato, in particolare, sui
modelli culturali che guidano i percorsi di vita e le decisioni delle donne in
Sardegna. Ma già negli anni sessanta Antonio Simon Mossa, geniale architetto ed
intellettuale poliedrico, affermò - non era esagerazione, slogan o “sparata” la
sua - che su questa terra incombe la minaccia
di “genocidio culturale”. Il
rischio è che potrebbe essere la nostra comunità a contribuire, in modo
decisivo, al proprio annientamento, alla scomparsa pressoché completa di una storia,
di una lingua, di una cultura, di una civiltà. Ciò si potrà verificare grazie
anche al secolare, decisivo, letale contributo di ceti dirigenti politici ed
intellettuali profondamente estranei - dal punto di vista psicologico ed
esistenziale, prima che politico-ideologico - a determinate tematiche.
La situazione internazionale. Da tempo in tutto il mondo la popolazione tende sempre più a concentrarsi nelle città; alla crescita delle aree urbane corrisponde l’abbandono di quelle rurali. Lo spopolamento investe particolarmente territori di Nord America, Europa, Russia e Giappone: si vedano al riguardo le cifre fornite da State of World Population 2011 dell’UNFPA (United Nations Populations Fund), ripresa (si veda la p. 68) dall’importante ricerca Comuni in estinzione. Gli scenari dello spopolamento, in Idms, Indice di deprivazione multipla della Sardegna, 2013. In questo studio figurano pagine di Antonello Angius, di due docenti dell’Ateneo cagliaritano, Gianfranco Bottazzi e Giuseppe Puggioni (da tempo impegnato nello studio di questa tematica) e di altri autori.
La situazione internazionale. Da tempo in tutto il mondo la popolazione tende sempre più a concentrarsi nelle città; alla crescita delle aree urbane corrisponde l’abbandono di quelle rurali. Lo spopolamento investe particolarmente territori di Nord America, Europa, Russia e Giappone: si vedano al riguardo le cifre fornite da State of World Population 2011 dell’UNFPA (United Nations Populations Fund), ripresa (si veda la p. 68) dall’importante ricerca Comuni in estinzione. Gli scenari dello spopolamento, in Idms, Indice di deprivazione multipla della Sardegna, 2013. In questo studio figurano pagine di Antonello Angius, di due docenti dell’Ateneo cagliaritano, Gianfranco Bottazzi e Giuseppe Puggioni (da tempo impegnato nello studio di questa tematica) e di altri autori.
La città cinese di Chongqing, come ha scritto Salvatore
Settis, è passata da 600.000 abitanti del 1930 ai 32 milioni di oggi. Il
fenomeno dello spopolamento assume inoltre il rilievo specifico dello
svuotamento di Venezia, studiato dallo stesso Settis, ma anche centri storici
dell’isola, come nel caso di Alghero e di Sassari, perdono abitanti. Senza una
critica calzante dei mostri urbani attuali non saremo assolutamente in grado di
prefigurare e progettare alcunché di positivo per il futuro. L’assunzione
acritica dei modelli dominanti potrà condurre solo a versioni minuscole e penose
delle megalopoli esistenti. Cagliari è già capoluogo del sottosviluppo, nel senso
più deteriore del termine. «La nostra Isola del futuro – ha scritto il 12
dicembre Salvatore Cubeddu nel sito della Fondazione Sardinia ed in quello di “Sardegna
soprattutto” - sarà una Città-Stato con il nome di Cagliari e sullo sfondo un
territorio in dissolvenza storicamente
chiamato Sardegna»; con relativa scomparsa, dunque, anche di una parvenza di
autonomia regionale. Ma si veda anche (cfr. “La Nuova” del 24 ottobre 2015) quanto
ha scritto in proposito Giovanni Maciocco, già preside della Facoltà di Architettura
dell’Università di Sassari, sede di Alghero, che ha preso le distanze dal
concetto di città metropolitana.
La sfida. La
grande, vera sfida che la società sarda dovrà affrontare nei prossimi decenni è
quella che riguarda la dinamica demografica, la quale va assolutamente
considerata in relazione ad una più ampia dimensione storica, socioeconomica,
politica, culturale e, soprattutto, ad un’idea di pianificazione e di progetto.
Non si tratta di un problema che attanaglia solo le popolazioni dei Comuni
dell’isola a rischio di scomparsa e di estinzione pressoché totale.
Da molto tempo il nodo che si vuole qui esaminare è stato
posto lucidamente da vari amministratori, fra i quali in questa sede vanno
almeno citati Bachisio Porru (già sindaco di Olzai) e Paolo Pisu (già sindaco
di Laconi). Più di recente, nello scorso novembre, il tema è stato affrontato nel convegno di
Sennariolo ad opera specialmente del sindaco di questo Comune, Giambattista
Ledda e di Omar Hassan, sindaco di Modolo, presidente della Consulta dei piccoli Comuni,
nonché da altri amministratori. Lo stesso problema affonda le sue radici in
secoli endemicamente caratterizzati da spopolamento e sotto-popolamento. Una
situazione ben diversa da quella di determinate regioni del Meridione d’Italia,
che sono stati e sono invece “piene” di abitanti. Un altro buon motivo per non edulcorare e per
non annegare i tratti specifici della questione sarda in un unico calderone o
magma indistinto, chiamato genericamente Mezzogiorno. Operazione in passato -
ed ancor oggi - propria di certa intellettualità accademica, poco o niente
sensibile alle rigorose analisi di Antonio Gramsci, che ha sempre distinto
Napoletano, Sicilia e Sardegna, per la quale egli aveva posto a Emilio Lussu il
quesito concernente l’esistenza - o meno - di una valenza “nazionale”, in senso
sardo, di determinate spinte e rivendicazioni. Purtroppo lo stesso Bottazzi ha
sostenuto che la dimensione sarda non presenta un suo profilo originale, ma è Meridione,
puramente e semplicemente. Una lettura
che conduce al totale appiattimento: come si fa a comparare Cagliari e Sassari
con la realtà napoletano-vesuviana, da secoli fra le aree con densità di
popolazione fra le più alte d’Europa? Se
si parte da premesse teoriche errate sarà possibile mettere a punto adeguate
strategie di salvezza?
L’economista Thomas Robert Malthus smentito da
John Day. Day, storico franco-americano, grande e sincero amico
della nostra isola, cui ha dedicato anni di studio e pagine dense di precisi
dati quantitativi (si pensi soprattutto alle sue indagini sui villaggi
scomparsi) ritiene che le vicende demografiche della Sardegna costituiscano la
smentita più eloquente delle posizioni assunte dall’inglese Malthus (1766-1834):
com’è noto, per questo autore l’aumento delle risorse naturali e materiali,
indispensabili per la sussistenza e la sopravvivenza, non riesce a reggere, a
seguire il tasso naturale di crescita delle popolazioni. Catastrofi naturali,
carestie, pestilenze, guerre svolgono il triste, ma inevitabile ruolo di
ricondurre la situazione ad equilibri meno precari. Secondo Malthus è
indispensabile assecondare la ricerca di tale equilibrio non facendo, fra
l’altro, l’elemosina ai poveri e raccomandando la castità alle coppie che non
siano in grado di mantenere i propri figli. Queste tesi suscitarono violente
critiche (si pensi a quelle dei socialisti utopisti Charles Fourier e Pierre-Joseph
Proudhon, così come di Marx ed Engels) ma allo stesso tempo incontrarono sostanziali e perduranti consensi.
Day invece pubblica - in “Annales” (n. 4, 1975), la rivista
di Marc Bloch, Lucien Febvre e Fernand Braudel, una delle più prestigiose nel
panorama della storiografia internazionale - un saggio in cui si dimostra che,
fra malaria, presenza-assenza di guerre e di altre calamità, la Sardegna è,
comunque, perennemente spopolata e/o sotto-popolata. Una carenza di popolazione
si accompagna ad un’ampia disponibilità di territori solo molto parzialmente
sfruttati e non adeguatamente valorizzati.
Se in futuro si cambiasse rotta, ciò avverrebbe a tutto
vantaggio dell’isola che potrebbe collocare - se non altro in importanti
nicchie del mercato globale - risorse di pregio, inconfondibili, uniche, come,
per esempio, il grano Cappelli: ne avevamo parlato nel novembre 2014 in un
incontro ad Alghero, presso il Dipartimento di Architettura, presentando la
rivista “Camineras” ed affrontando il nodo dello spopolamento, con l’economista
Ivan Blecic, Tonino Budruni (docente e storico), Ninni Tedesco (direttrice
della rivista); erano intervenuti, fra gli altri, Paolo Mugoni (redattore di
“Camineras”), l’economista Andrea Saba e Tonino Baldino (ex-sindaco di Alghero)
il quale metteva in luce già da allora che Cagliari, nella veste di città
metropolitana, è destinata ad assorbire gran parte dei finanziamenti
dell’Unione Europea, con relativa accentuazione degli squilibri esistenti.
Sarà indispensabile assumere consapevolezza piena - per il
passato, il presente e, soprattutto, per il futuro - che determinate realtà
demografiche non possono, non devono essere analizzate indipendentemente dai programmi
e dalle opzioni politiche dei ceti dirigenti, italiani e sardi; si tratta di
individuare al riguardo una precisa gerarchia di responsabilità. Solo così
potrà essere esaminato e compreso il ruolo dei soggetti in gioco per creare e
mantenere quei meccanismi della dipendenza che hanno reso la nostra isola un
“laboratorio di storia coloniale” (espressione coniata da Day). Lo
spopolamento, va ribadito, può essere affrontato solo con politiche ad hoc che siano parte integrante di un
più ampio progetto di fuoriuscita dalla crisi, di rilancio, per l’emancipazione
economica, socioculturale e politica della Nazione sarda.
Alcune tappe della
dinamica demografica sarda. Risulta oltremodo difficile ipotizzare la
consistenza globale della popolazione durante il dominio romano: si è pensato
che, durante il I secolo dopo Cristo, gli isolani fossero all’incirca 300.000
(circa 12 per Kmq). Attenzione, una densità bassa in rapporto a quella
siciliana ed al Sud dell’Italia, alta però se paragonata al numero dei sardi
nel Medioevo ed in alcuni tratti dell’Età moderna.
Agli inizi del Trecento la Sardegna è popolata da non più
di 190.000 persone. Mai regione d’Europa è stata, più della nostra isola, duramente
provata dalle carestie, dalle epidemie e
dalla violenza del tardo Medioevo: lo sostiene Day. Tra la fine del XIV ed i
primi anni del secolo successivo, quando muore, colpita dalla peste, Eleonora
d’Arborea, lo spopolamento rurale tocca il punto più alto e tragico. Ma,
avverte Day, si tratta delle ultime ripercussioni di un movimento cominciato in
piena “prosperità pisana”: espressione che, con tutta evidenza, va
rigorosamente virgolettata.
Nel Seicento, il saldo finale è passivo:
infatti, intorno al 1627, la popolazione è di 310.000 unità che diventano
260.551 nel 1698. La Sardegna, fortunatamente, non conosce la peste di manzoniana memoria (quella del
1630). Tuttavia nel 1641 i sardi, in tutto, non dovevano essere più di 300.000.
Il 1644 è un anno di carestia; il 1647 è segnato da un’invasione di cavallette
che non è la prima e non sarà, purtroppo, neppure l’ultima, se appena pensiamo
a quella del secondo dopoguerra, filmata dal regista ed etnoantropologo visuale
Fiorenzo Serra. Soprattutto, del 1652-57
è la decisiva cesura stabilita dalla grande pestilenza: Sassari perde, nei
confronti di Cagliari, quel primato demografico che non riconquisterà più, pur
riavvicinandosi all’attuale capoluogo regionale tra fine Ottocento e primi del
Novecento, come sosteneva il sindaco di allora, Pietro Satta Branca (lo
scriveva Manlio Brigaglia nel suo libro sulla classe dirigente sassarese). Del 1680-81
è un altro durissimo colpo per i sardi, già duramente provati: si tratta della hambre y epidemia che fa scomparire
circa 1/3 degli abitanti. Un quadro più preciso viene dagli atti degli
Stamenti, l’antico Parlamento sardo di ordini privilegiati, del quale chi
scrive (con altri studiosi) ha curato l’edizione critica su incarico del
Consiglio regionale.
Nel Settecento la crescita è continua: in Sardegna non
arriva la peste di Marsiglia del 1720-22 che fa sparire la metà della
popolazione. Nell’Ottocento la dinamica demografica continua ad essere positiva,
nonostante Sassari venga colpita dal colera che, nel 1855, uccide ben 6.000
sassaresi su 25.000. Pur in presenza di lebbra (sì, proprio la lebbra),
malaria, tracoma ed altre malattie, alla fine del XIX secolo gli abitanti sono
circa 830.000, come emerge dai lavori del primo Congresso dei Sardi, tenutosi
nel 1914 in Roma, a Castel Sant’Angelo: lo abbiamo ricordato il 27 ottobre del
2014 in un incontro-dibattito nell’Università di Sassari, con il vicesindaco
Gianni Carbini ed inoltre con Attilio Mastino, Gianfranco Ganau, Serafina Mascia,
Paolo Pulina, Paolo Fois, Omar Chessa, Cubeddu e Vanni Lobrano.
Nel Novecento la crescita prosegue, nonostante alle
malattie già ricordate si aggiunga, ai primi del secolo, un aumento dei casi di
lebbra, per non parlare della tubercolosi che, nei primi decenni, colpisce
particolarmente Sassari, per la quale, infine, negli anni novanta, si delinea
la crescita zero. Ma per tanti altri centri la decrescita era cominciata dopo
il 1951 con imponenti, quasi biblici flussi migratori, che si sommavano a
quelli che, durante l’età giolittiana, si
erano diretti verso l’America Latina; il picco, per l’Italia di allora, è
costituito dal 1913. Un aspetto dell’emigrazione poco studiato, secondo la
psichiatra Nereide Rudas, riguarda le migliaia di sardi finiti nei Cim (Centri
di igiene mentale).
Fino al 1951 si era registrato un sostanziale aumento nella
popolazione di tutti o quasi i Comuni sardi. In seguito cominciano a prendere
corpo i ben noti fenomeni di concentrazione, soprattutto nell’area
cagliaritana, in quella sassarese, più di recente in quella di Olbia; in
generale, si verifica uno spostamento della popolazione verso le coste e verso
le due principali città - Cagliari soprattutto - ma non si tratta di percorsi e
traiettorie uniformi, come viene dimostrato dai dati e dalle tabelle della già
ricordata ricerca Comuni in estinzione.
Nel Capo di Sopra paesi importanti accusano emorragie di notevole consistenza: impressionano
le cifre che accompagnano il percorso demografico di centri tradizionalmente
operosi, dotati - e non da ieri - di energie imprenditoriali, come Thiesi,
Bonorva, Ozieri, Berchidda. Comuni come
Uri crescono invece assorbendo i transfughi di quelli viciniori.
In Provincia di Nuoro non sono solo Bitti ed Orune a
perdere abitanti (diverso il caso di Orgosolo), ma anche Aritzo, Desulo e Tonara,
da tempo noti per il turismo montano (e non solo). Ultimamente il sindaco di
Orgosolo Dionigi Deledda è stato fra i pochi, mi pare, a mettere in evidenza
che il nodo da affrontare e da sciogliere riguarda non la creazione di una o
due città metropolitane, ma proprio il riequilibrio demografico. Nel Capo di
Sotto una realtà che andrebbe studiata, per esempio, è quella di Villacidro -
dove non a caso si verifica un incremento di popolazione - evidentemente in
grado di mantenere un sostanziale equilibrio fra settori economici diversi (il commercio,
il centro della rete distributiva di Nonna Isa, agricoltura, pastorizia), nonostante
sia stata colpita dalla crisi di una fabbrica come la Keller.
Nel convegno promosso dalla Cisl e tenutosi a Mandas
nell’ottobre del 2014 è stato ricordato che i piccoli Comuni isolani sono 313
su 377; 258 hanno meno di 3.000 abitanti; 31 sono quelli a rischio estinzione
in un arco di tempo che va dai 10 ai 60 anni. Pur tuttavia queste realtà - cosiddette
minori - hanno giacimenti archeologici,
tesori d’arte e produzioni che potrebbero essere quanto mai valorizzate
se appena si pensasse ad un tessuto produttivo, connettivo sardo: dovrebbe
essere proprio questo l’obiettivo prioritario di ogni Giunta regionale. In effetti
vengono stretti accordi con l’emiro del Qatar - che finanzia sottobanco
l’Isis - e si firmano protocolli su Matrìca con un colosso come l’Eni, il primo
a non rispettarli ed a sganciarsi. Una politica economica che non punti alla
vocazione quasi naturale della Sardegna per la piccola struttura -
agropastorale, artigianale, manifatturiera, industriale - e che non sia
rigorosamente antimonopolistica vedrà infine la nostra società depauperata
anche di uno straccio di autonomia decisionale,
come in effetti è avvenuto.
Si è detto del convegno di Sennariolo in cui è stato
ripercorso il calvario dei piccoli Comuni: chiudono l’ufficio postale, la stazione
dei carabinieri, lo sportello bancario, la farmacia, la scuola elementare, il
negozio di alimentari; è già molto se
resiste qualche bar: le alternative? Fiscalità di vantaggio e alleggerimento
del patto di stabilità, tanto per cominciare:
sindaci di opposti schieramenti hanno più volte ribadito che solo uomini
spinti da un mix di demenza e scelleratezza potevano pensare ad una legge che
impone ad un ente di accantonare soldi - peraltro in cassa - per pagare la
piccola impresa che ha eseguito qualche lavoro pubblico. Ma tutto ciò fa parte
di quelle sciagurate politiche di austerity che tanto piacciono all’Unione
Europea, al centro destra ed al centro sinistra e su cui neanche la cultura sardista
e indipendentista ha mai fatto sufficiente chiarezza. Solo gli indipendentisti
scozzesi e catalani le hanno condannate drasticamente.
La forza
simbolico-politica dell’Utopia. Un’alternativa allo svuotamento della
Sardegna - puntando sull’idea di una nuova capitale - può essere delineata sia
sul piano utopico, sia su quello progettuale. Utopia intesa non nel senso di un
sistema sociale ideale, di un governo
perfetto, fondato sulla comunione dei beni e delle donne, secondo una concezione
che risale a Platone, prosegue con Thomas More, con Tommaso Campanella, per
arrivare ai grandi utopisti dell’Ottocento (cui Marx deve molto di più di
quanto sia disposto ad ammettere). Utopia, piuttosto, come prospettiva di
uguaglianza, di giustizia, di speranza, da perseguire sulla base di quelle
conquiste - economiche, sociali, politiche, culturali, spirituali - che hanno
caratterizzato diversi cicli della storia dell’umanità: dalla predicazione di
Gesù al primo cristianesimo, dai movimenti religiosi alle sette ereticali del
Medioevo ed oltre, con la loro carica di millenarismo, sedimentatasi nella
cultura popolare, presente nelle analisi dei gramsciani Quaderni
del carcere; le due rivoluzioni inglesi del XVII secolo, quella del 1649 e
la seconda, quella del Bill of Rights
(1688-89); la rivoluzione americana e l’Ottantanove francese, che lo storico Robert
Roswell Palmer considera come parte integrante di un’unica “rivoluzione
atlantica”; per giungere all’Ottobre russo del 1917. Rotture epocali, che sono
state indubbiamente accompagnate da un carico più o meno accentuato di violenza,
da spargimenti di sangue, nonché dal rischio, ricorrente - ed assai esplicito
con lo stalinismo - del rovesciamento dell’utopia nel suo esatto contrario, la distopia, cioè l’utopia negativa. Quanto
fin qui detto si riscontra sostanzialmente in un’opera affascinante e
significativa: Utopia. Rifondazione di
un’idea e di una storia (pubblicata nel 1997 dall’editore Dedalo di Bari), che
si deve ad Arrigo Colombo, animatore del Centro interdipartimentale di studi
sull’utopia dell’Università di Lecce.
Di fronte ai drammatici problemi dell’isola, si rendono
indispensabili proposte forti, decise, radicali, da formulare sia sul terreno
dell’utopia, sia su quello del progetto. Non possiamo limitarci solo a chiedere
la fondazione di una nuova capitale della Sardegna (versante utopico); l’idea
era emersa ad opera della cultura sardista, secondo una proposta mutuata negli
anni settanta da determinati ambienti sindacali (si veda al riguardo il libro L’ora dei Sardi, curato da Cubeddu,
pubblicato nel 1999 dalla Fondazione Sardinia di Cagliari). Occorre abbinare a
tale istanza un progetto, parola odiata dalle oligarchie autoreferenziali
dominanti, che hanno ormai soggiogato tutti i partiti, chiuso le sezioni, impedito
il dibattito e la partecipazione della base.
Una nuova capitale
della Sardegna nell’ambito di un progetto più vasto. A questo punto
potrebbe balzare in primo piano il ruolo del Dipartimento di Architettura
dell’Università di Sassari, sede di Alghero o di Ingegneria dell’Ateneo
cagliaritano. In sinergia con altri soggetti, come la Fondazione Sardinia - o
la stessa Unione dei piccoli Comuni - si potrebbero promuovere ricerche, tesi
di laurea, di dottorato, per studiare il problema a partire da una riflessione,
per esempio, sull’esperienza storica, architettonica ed urbanistica di Brasilia,
che venne costruita durante la presidenza di Joscelino Kubitscheck, su progetto
di Oscar Niemeyer: una vicenda che, per ovvie ragioni, non può essere
meccanicamente applicata allo specifico contesto sardo.
Ma si potrebbe pensare anche ad indagini di economisti,
sociologi, architetti, urbanisti, ingegneri civili e dei trasporti, che
investano paesi e territori del centro della Sardegna, fra i quali, con
razionalità, potrebbe essere scelta, dopo adeguati interventi e con opportune
riqualificazioni, la nuova capitale dell’isola.
Si potrebbe anche pensare ad un raccordo, su vari piani (dall’edilizia
al sistema delle comunicazioni stradali) fra centri dell’interno, che possa
condurre a quella “città ambientale” autorevolmente teorizzata ed auspicata da
Maciocco.
Un’altra ipotesi, sottolineata da Cubeddu, potrebbe essere
rappresentata dalla costruzione, presso il Monte Arci, di uno o più edifici
come sedi sia del Congresso, cioè dell’Assemblea legislativa del Popolo sardo,
sia dell’Esecutivo: si tratterebbe di un primo nucleo della futura “Città della
Sardegna”.
L’importante è individuare - con una miscela di indagini,
di tipo sia qualitativo che quantitativo - un Comune, un gruppo di Comuni o un territorio
che ogni cittadina o cittadino possa raggiungere, partendo da qualsiasi luogo
della Sardegna, in un’ora, un’ora e mezzo al massimo. Ciò dovrebbe essere
infine oggetto di accorta disamina da parte di un’Assemblea costituente, tema
da riprendere e rilanciare dopo che intorno a questa prospettiva aveva preso
corpo, negli anni novanta / inizi del 2000, un movimento poi purtroppo frammentatosi
ed andato verso la dispersione.
Una borsa di studio, un premio, un concorso di idee potrebbero
diventare economicamente appetibili non solo con donazioni personali, ma anche
lanciando una sottoscrizione, attesa, fra l’altro, la pressoché completa indisponibilità
della Fondazione Banco di Sardegna verso richieste di finanziamento avanzate per
ben motivati progetti culturali.
L’idea di un riequilibrio affonda le sue radici in un
ordine di considerazioni storiche che non riguarda solo ed esclusivamente la
demografia. Sin dal Medioevo, proseguendo con l’Età moderna, per arrivare alla
contemporaneità ed alla situazione presente, recarsi a Cagliari ha costituito
per gran parte degli abitanti dell’isola un sacrificio insopportabile, una
penalizzazione ormai non più tollerabile.
Gli atti degli Stamenti, l’antico Parlamento sardo - che ho avuto l’onore
e l’onere di curare per conto del Consiglio regionale - dimostrano
inequivocabilmente che la collocazione geografica di Cagliari e la sua
lontananza da altre parti dell’isola determinava quasi sempre la rinuncia, per
moltissimi, per i più, a recarsi colà per adire le sedi giudiziarie più alte onde
vedere soddisfatte, almeno in parte, le
proprie istanze (cfr. in particolare Il Parlamento
del viceré Nicola Pignatelli duca di Monteleone (1688-89), a cura di F.
Francioni, Consiglio Regionale della Sardegna, Cagliari, 2015, 3 tomi di circa
670 pagine l’uno). Per non parlare dell’ancor più grave e penalizzante
centralizzazione su Cagliari del commercio granario.
Bisogna tornare in qualche modo all’esperienza
dell’industriale Adriano Olivetti e dell’economista sassarese Gavino Alivia,
che avevano concertato un piano per il ripopolamento della Nurra (lo ricordava
Giulio Sapelli in un volume sull’impresa nel Nord Sardegna). Occorre una
riflessione non superficiale sulla cultura delle città, partendo dalle pagine
di Lewis Mumford, che era stato ripreso dal nostro Michelangelo Pira ne La rivolta dell’oggetto. Lo stesso Pira
si interrogava su Cagliari, su ciò che la rende davvero bella, “Città del Sole”
(si pensi al libro di Francesco Alziator) e sulle sue brutture. Cagliari ha
comunque le caratteristiche geofisiche, ambientali, artistiche e culturali per
diventare una delle autentiche capitali del Mediterraneo (cfr. Cagliari tra passato e futuro, a cura di
G. G. Ortu, Cuec, Cagliari, 2004).
Si rende altresì indispensabile
una rilettura attenta di quanto l’economista, giornalista e ambientalista
Giuseppe De Marzo ha scritto sulle cosiddette Casitas Auschwitz di Città del Messico, sugli squilibri, le
contraddizioni, gli obbrobri dell’urbanesimo attuale. Occorre considerare i
volumi di quegli studiosi - il geografo urbano Edward Soja e John Friedman,
studioso delle città, ricordati da Maciocco - che sono critici dei modelli metropolitani
oggi dominanti.
All’utopia va dunque affiancata una progettualità, che
contempli: a) il rilancio dell’agricoltura e della pastorizia abbinato agli
obiettivi strategici della sovranità alimentare ed energetica; b) la creazione
e/o il rafforzamento di un tessuto industriale e produttivo locale da avviare verso una riconversione
ecocompatibile, incardinata sulla piccola impresa (si veda in proposito un
succoso volumetto del già citato Sapelli); c) la realizzazione delle bonifiche
a Porto Torres, Ottana, Macchiareddu, Porto Vesme, insomma, nei siti fra i più
inquinati d’Europa (se non del mondo), aprendo così una concreta prospettiva di
lavoro per i cassintegrati e per gli espulsi dai processi dell’industrializzazione
selvaggia; d) un sistema bancario sardo; e) una rete
commerciale che non sia dipendente dalla grande distribuzione, la quale dirotta
verso il Nord della penisola e dell’Europa i profitti derivanti dalle spese e
dai consumi dei sardi; f) il rifiuto netto dei monopoli calati in Sardegna,
mossi solo dalla logica dello spremi e getta (la vendita di Versalis ed il
tendenziale disimpegno dell’Eni dal progetto
Matrìca dovrebbero renderci quanto mai edotti che con i monopoli è bene
non firmare protocolli che non vincolano mai
il più forte); g) un piano di opere pubbliche, infrastrutture e trasporti in
grado di collegare i vari territori, evitando una centralizzazione ormai
esasperata su Cagliari (si tratta di un nodo saldamente intrecciato alla
creazione di un nuovo polo di gravitazione dell’isola); h) il ripensamento ed
il rilancio della cooperazione e del mutualismo che, per il ripopolamento,
unisca, in particolare, donne sarde e donne immigrate, le quali possano
usufruire del microcredito.
A questo punto sarebbe essenziale esaminare in qual modo
potrebbe essere applicata alla Sardegna la visione del premio Nobel per la pace
Muhammad Yunus, che sosteneva la necessità di prestiti alle donne, per quanto
povere, in quanto esse si fanno carico, si prendono cura - delle cose, dei problemi,
delle persone - non solo della prole (cfr. il contributo di chi scrive, su
“Camineras”, n. 3, maggio 2012, pp. 63-83, in particolare le pp. 67-69).
Appare evidente che i punti salienti di questa
progettualità sono dettati non dalle logiche del liberismo selvaggio, ma da
quelle di tipo keynesiano, dall’esigenza
di un New Deal di cui la Sardegna
dovrebbe dotarsi, come ha più volte auspicato Cubeddu, per guardare con meno
angoscia ad un futuro in cui la minaccia di spopolamento non pesi come
oggi.
L’Ocse ha riconosciuto come buona prassi quella seguita
nello Stato finlandese. Nel giro degli ultimi vent’anni, nei territori dei
Lapponi, con una densità di abitanti fra le più basse d’Europa, sono stati
realizzati interventi cofinanziati in gran parte con fondi comunitari: agevolazioni
fiscali ed incentivi per incrementare le nascite e per l’acquisto della prima
casa; concessione di terreni a titolo gratuito; diffusione della banda larga;
incentivi al telelavoro; accorpamento, integrazione e messa in rete dei servizi
alle popolazioni locali; incentivi per
la creazione di reti pubblico-private; decentramento amministrativo delle funzioni
pubbliche; decentramento dei servizi alle imprese; efficientizzazione del sistema
dei trasporti; e-learning nelle scuole non soltanto dell’obbligo. I risultati, incoraggianti,
costituiscono spunti validi anche per il nostro contesto.
Conclusioni. Le
città metropolitana, quella voluta specialmente dall’assessore Cristiano Erriu,
non ha incontrato fino ad oggi alternative credibili. I problemi della Sardegna
non si risolvono nella scelta di Cagliari e/o Sassari, ma affrontando il nodo
decisivo del riequilibrio demografico e territoriale. Sono state prospettate in
questo articolo le seguenti, possibili scelte: 1) l’idea di una nuova capitale
dell’isola; 2) la scelta di un paese al centro da riqualificare come nuova
capitale; 3) un raccordo, una rifunzionalizzazione fra piccoli Comuni dell’interno per una
“città ambientale” come capitale; 4) l’edificazione
di una nuova sede del Congresso (cioè del Parlamento) e dell’Esecutivo in un
luogo strategico (la “Città della Sardegna”). Temi e problemi che richiedono
approfondimenti, competenze specifiche ed anche interdisciplinari.
Quanto è possibile fare sul piano dell’indagine razionale
non è invece spendibile immediatamente nella prassi politica “ufficiale”. Qualsiasi
forza (indipendentisti compresi) si troverebbe in grave difficoltà nel gestire
una proposta che potrebbe alienare simpatie e consensi elettorali nel Capo di
Sotto. A ciò si aggiungano le gravi responsabilità di un ceto di intellettuali
sostanzialmente teracu. Bisogna
dunque fare in modo che tali proposte diventino oggetto di studio, di ricerca e
che possano collegarsi quanto prima al
dibattito politico ed alla dimensione progettuale.
La possibilità di cominciare a studiare seriamente il
problema è realizzabile. Si tratta di
suscitare entusiasmi ed energie soprattutto giovanili, con un concorso di idee,
con un premio, con una o più borse di studio, per cominciare a indicare una
prospettiva non avulsa da un più generale moto di radicale cambiamento.
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