EDITORIALE GIUGNO 2006


Non è stato mai facile orientarsi nella politica all’italiana, ma in questi ultimi anni sembra che siano impazzite anche le bussole. In Sardegna, poi, ci sembra di vedere l’ago che gira tanto follemente attorno a se stesso da rendere impossibile non solo l’orientamento ma anche la semplice visualizzazione dell’ago stesso. Per rendersene conto, limitandosi all’attualità, basta dare uno sguardo a quanto sta accadendo attorno a tre argomenti fondamentali per la crescita e lo sviluppo dell’isola e della sua gente:
Ø referendum sulla riforma costituzionale;
Ø riforma dello statuto della regione autonoma;
Ø legge sulla unificazione grafica della lingua sarda.
Andiamo con ordine:
Il centro-destra approva in parlamento una riforma di alcune parti della costituzione prendendo l’avvio dalla prima modifica, fatta dal centro-sinistra, e correggendo, in senso federalista, alcuni passaggi spacciati per tali ma che di federalismo non avevano neanche il sapore. Aggiunge però la riforma dei poteri del presidente del consiglio predisponendo l’avvento di un premier slegato dalla fiducia parlamentare e con il potere di indire nuove elezioni in caso di mancata maggioranza nel parlamento: in pratica non è l’organo legislativo a controllare l’esecutivo ma l’esecutivo a controllare il legislativo. Ciò significa ridurre il parlamento in ostaggio del primo ministro. Si contraggono anche i poteri del presidente della repubblica al quale viene sottratto il potere di nomina del presidente del consiglio e della indizione delle elezioni.
Una polpetta avvelenata che, con l’ulteriore aggiunta del Preminente interesse nazionale voluto da Fini, uccide ogni aspettativa di crescita della democrazia come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi ed ogni aspirazione di reale autogoverno all’interno di un contesto federale dello stato italiano. Per noi basta per essere contrari, ma quando ascoltiamo le ragioni del centro-sinistra, riusciamo persino ad arrabbiarci. Ci approntiamo, con profondo pessimismo, ad affrontare una stagione dove le riforme, se si faranno, saranno improntate sulle tre correnti di pensiero che vediamo prevalere nello schieramento al governo: lo stato centralizzato; lo stato patrimoniale; lo stato assistenziale. Sono residui persistenti di un certo comunismo, del socialismo craxiano e del popolarismo democristiano che, nonostante i cambiamenti nominali dei loro depositari storici, rimangono pietre portanti dell’impostazione ideale (!) degli eredi di un’era ancora incombente.
Ci spaventano l’accento posto non sul pericolo rappresentato dalla preminenza data alla figura del primo ministro ma sulla destrutturazione dello stato centralista e le sottolineature sull’attentato all’unità dello stato.
In un momento in cui i cosiddetti stati nazionali vanno perdendo la loro funzione e sarebbe necessario avere il coraggio di rivedere il vecchio progetto Italia ed andare a fare le considerazioni sul suo fallimento (per quanto se ne dica, l’unità d’Italia ha soprattutto fatto il giuoco delle regioni ricche ed ha utilizzato quelle povere come riserva di braccia, come mercato e come territorio da sfruttare), si ripropone la retorica dell’unità come valore assoluto.
Lo stato italiano nei suoi oltre 150 anni di vita non è riuscito ad unificare ne economicamente ne culturalmente le popolazioni ricadenti sotto la sua giurisdizione e, la Questione Meridionale è stata utilizzata come coperchio buono per una politica clientelare che ha raggiunto livelli eccelsi.
E’ questa l’unità che si vuole difendere?
Noi crediamo che, in fondo, tutto rientri nella vecchia logica del controllo: un potere centralizzato è molto più facile da controllare di un potere diffuso; ecco perché disturba di più un processo di reale federalismo piuttosto che un processo di reale concentrazione di poteri. Ecco perché si parla cosi poco dei poteri del primo ministro (ma in fondo, nelle attuali regioni, non è già così con la figura del governatore?).
Questo discorso ci porta direttamente a parlare della seconda emergenza: la riforma dello statuto della regione. Affossato il sogno della Assemblea costituente, il centro-sinistra al governo della regione ha approvato una legge, con i soli voti della maggioranza, che prevede la costituzione di un organismo non elettivo, quindi non soggetto primario, ma emanazione del consiglio, con delle aggiunte presidenziali, quindi soggetto secondario, con il compito di elaborare una proposta di modifica statutaria. La ragione di questa scelta viene indicata nel diritto del consiglio, formato da eletti dal popolo, di esercitare il proprio dovere-diritto di legiferare sulle materie di sua competenza.
Si salta a piè pari tutto il discorso portato avanti da numerose associazioni espressione della società civile che avevano chiesto di partecipare attivamente alla formulazione della nuova carta regolatrice dei rapporti sia interni che con lo stato. E’ come se il consiglio di amministrazione di una cooperativa, decidesse di modificare lo statuto senza interpellare i soci: è accettabile una cosa del genere? Di fronte a questa scelta le considerazioni da fare possono viaggiare su diversi fronti e proviamo ad evidenziarne alcune:
a - I consiglieri regionali sono i più indicati a fare proposte sullo statuto perché conoscono meglio di altri l’argomento da trattare e possono quindi elaborare un progetto in tempi rapidi.
Pur riconoscendone, per dovere d’ufficio, la competenza tecnica e pur accettando il loro ruolo di rappresentanti del popolo, a nessuno può sfuggire che essi sono rappresentanti solo di una parte del popolo sardo e che nella nostra società si agitano posizioni importanti anche numericamente e culturalmente che non si riconoscono in essi. Come sia possibile che queste posizioni possano essere riportate sulla proposta di statuto se non, al massimo e per gentile concessione, in termini strumentali, non riusciamo a capirlo. Del dibattito sulla autonomia e sulla sovranità non si è sentita eco nel consiglio regionale; sul federalismo si continua a confondere le acque demonizzandolo da una parte come elemento di disgregazione della patria quando se ne parla a livello statuale e dall’altra spacciando per federalismo interno il decentramento amministrativo verso i comuni. Si continua a parlare di difesa della autonomia speciale utilizzando per giustificarla i concetti di nazione sarda e di sovranità confondendo volutamente i mezzi ed i fini spacciando la specialità come l’unico mezzo per valorizzare la sovranità (sic) della nazione sarda.
Con questi presupposti concettuali l’unica cosa che ci possiamo attendere dalla consulta per lo statuto è il parto del gemello del gattino di lussiana memoria.
b – Affidare ad un gruppo di addetti ai lavori la definizione delle regole fondamentali che evidenziano e delimitano i poteri della Regione, significa predisporre le condizioni per elaborare delle norme molto tecniche e rispondenti, dal punto di vista politico, alle esigenze dei partiti che esprimono i membri costituenti. Da qui nasce la nostra sfiducia che è riposta non sui partiti, ma su questi partiti. Da quando abbiamo memoria, le filiali sarde dei partiti italiani si sono sempre collocate sulle retrovie delle elaborazioni politiche dei loro mentori mettendosi al servizio di potentati metropolitani che, spesso, hanno utilizzato la Sardegna come landa lontana dove sbarcare attività poco gradite o territorialmente ingombranti o clientelarmente redditizie. Pensiamo alle basi militari; pensiamo alle industrie inquinanti; pensiamo alle petrolchimiche…
Come sia possibile che da questo ceto politico possa venir fuori una proposta che ribalti il rapporto di sudditanza e ponga le basi per un reale autogoverno, non riusciamo proprio a concepirlo. Le aperture di Soru sulle coste, sui contenziosi finanziari con lo stato, sulla lingua, non ci bastano. Ci sembrano fatti episodici dovuti alle prese di posizione di una persona, non il risultato di una elaborazione e maturazione di un apparato politico.
Dulcis in fundo arriviamo alla legge sulla limba sarda comuna: era ora. Ci ritroviamo in perfetta sintonia con quanto fatto dalla regione; ci attendiamo altrettanta sintonia con gli atti a seguire. Adesso occorre un’opera massiccia per inserire il sardo nelle scuole, nelle amministrazioni ed in tutti gli altri aspetti della vita sociale. Senza timidezze ed esitazioni, senza dare ascolto ai soliti strepitanti bastiancontrari che in questo campo abbondano.

Commenti

Anonimo ha detto…
E' ancora peggio; questi non riescono a fare neanche la consulta.
Pedru