Di seguito pubblichiamo un’anticipazione del saggio di F. Francioni, La caduta dell’inquisitore. Momenti, problemi e figure di storia dell’Inquisizione spagnola in Sardegna (dal Cinquecento ai primi del Settecento). Con il testo teatrale S’istrampada de s’inquisidore, tributo a Il crogiuolo di Arthur Miller. La monografia comparirà prossimamente.
Un salto qualitativo
della ricerca storica – Il contributo dell’Illuminismo – Resistenzialità sarda
al Sant’Uffizio – Da instrumentum Regni a “corpo separato” – Statuti
sassaresi e Carta de Logu incomparabilmente più avanzati delle
procedure inquisitoriali – La condanna al rogo di Sigismondo Arquer, intellettuale
di respiro europeo – Altri casi nel Cinquecento e nel Seicento – Lo scempio del
corpo della donna – La cacciata di un inquisitore nel 1702 – Verso la fine.
Un salto qualitativo
della ricerca storica. Occorre avvalersi in primo luogo del salto
qualitativo operato dalla ricerca e dal dibattito storiografico sui principali
nodi dell'Inquisizione, compresa quella attiva in Sardegna durante la
dominazione spagnola. Si pensi, in particolare, ai saggi di Andrea Del Col
sull'Italia, alla poderosa monografia di Adriano Prosperi sui Tribunali
della coscienza, ai volumi di Salvatore Loi sull'isola.
Sarebbe oltremodo
sbagliato vedere il contesto sardo come avulso da una più ampia dimensione,
secondo gli schemi – che così a lungo ci sono stati propinati – del
determinismo geostorico insularità-isolamento; oppure secondo le proiezioni
dello stolto paradigma arretratezza-modernizzazione che ha visto la Sardegna
come terra perennemente tagliata fuori dai grandi flussi di idee provenienti
dall'Europa medievale, moderna e contemporanea. Per smentire questi stereotipi,
può essere sufficiente il riferimento all'arrivo di libri – dalla provenienza
più disparata – in quel di Porto Torres, che allarmava tanto gli inquisitori,
impegnatissimi a rivendicare la precedenza, rispetto alle autorità civili,
nella visita al naviglio onde sventare lo sbarco di testi e materiali sospetti:
si vedano gli studi condotti al riguardo da Angelo Rundine.
Un’ampia ed approfondita
monografia del compianto Francesco Manconi sulla Sardegna sotto gli Asburgo di
Spagna ha delineato, fra l’altro, un Seicento sardo che, pur essendo
indubbiamente un secolo di crisi profonda, non è però assimilabile alla (ormai
scontata) categoria della decadenza e presenta anche tratti reattivi e dinamici
sul piano sociopolitico e culturale.
Nell'esaminare lo scontro
fra la Chiesa cattolica e Inquisizione, da una parte, la Riforma protestante,
dall'altra, si può rilevare, tra l'altro, che anche uomini e donne del mondo
sardo – provenienti dalle masse popolari ed analfabeti – venivano accusati di
luteranesimo: a parte vari casi, assai interessanti, di accusati ed imputati
provenienti dal clero e dal ceto delle professioni, sappiamo dalle risultanze
attuali della ricerca che il movimento riformatore non riuscì mai a piantare
radici significative nell'isola. Certo, non bisogna sottovalutare le fortissime
divaricazioni della Riforma protestante con le gerarchie ecclesiastiche ed
inquisitoriali, le ricadute determinate dai rispettivi operati, nei diversi
contesti geostorici, sul piano economico, sociale, politico, culturale e
spirituale. Queste forze opposte, però, tendono a convergere, non casualmente,
nello sforzo di reprimere i rispettivi dissensi interni, di uniformare ed
anche, diciamolo pure, di irreggimentare la società. Anche la Sardegna è
sottoposta ad una ferrea logica che punta, fra l'altro, alla
castiglianizzazione politico-linguistica della società, per quanto i giudici
del Sant'Uffizio dovessero fare i conti con imputati degli strati sociali
subalterni che potevano essere interrogati nell'unica lingua da loro
conosciuta: quella sarda.
Non a caso, nel
Cinquecento, nel Seicento e, all’incirca, fino al primo quindicennio del
Settecento, è schiacciante il numero degli inquisitori provenienti dalla
penisola iberica: pochissimi i sardi. Dagli studi di Antonio Era a quelli di
Rundine, per arrivare alla sostanziosa monografia complessiva di Loi,
disponiamo ormai di un elenco completo degli inquisitori operanti nell’isola.
Il contributo
dell’Illuminismo. Ancor oggi ricorrono avvertimenti di
certi storici secondo cui non bisogna farsi assolutamente condizionare dalla
visione cupa e negativa proiettata, sulla Spagna interna e dell'espansione
coloniale, dalla Leyenda negra antispagnola, la quale affonda le sue
radici nel Cinquecento e conosce per secoli significativi sviluppi. Di contro a
questi ammonimenti, è opportuno mettere particolarmente in risalto che
l'Illuminismo – con la sua critica all'oscurantismo, ai poteri laici ed
ecclesiastici, con l'esaltazione di istanze ispirate alla ragione, alla
tolleranza, al progresso, alla felicità dei singoli e dei popoli – non
costituisce qualcosa di depistante rispetto ai risultati più recenti degli
studi storici. In base alle acquisizioni più aggiornate, infatti, emerge, anche
in Sardegna, un quadro di aspri conflitti dell’esorbitante potere inquisitoriale
con le giurisdizioni della Chiesa e dello Stato. Per non parlare, s'intende,
delle durissime risposte, ai limiti della lotta armata che, in talune
occasioni, vengono indirizzate da singole comunità isolane contro il
Sant'Uffizio. Anche all'interno di questo organismo si accendono scontri
violenti e non solo, si badi bene, verbali.
Resistenzialità sarda al
Sant’Uffizio. Le relazioni di visitatori, ovvero di
ispettori, inviati dal Supremo consiglio inquisitoriale di Madrid, con
l'incarico di stendere dettagliate relazioni sull'operato del tribunale del
distretto periferico, riferiscono inequivocabilmente di un discredito causato
dagli stessi inquisitori – capaci di far cadere l’organismo da loro guidato
nell’obbrobrio o nell’abominio (sono proprio questi i termine
adoperati) – nonché di una più o meno esplicita ostilità nutrita verso di loro
dalle popolazioni dell'isola. Uno studioso non certo sospettabile di
propensione verso la Leyenda negra antispagnola, come il già citato Loi,
scrive di un intreccio di terrore, di panico, di avversione verso il
"Santo" tribunale che in Sardegna comincia a delinearsi già nel
Cinquecento. Sono gli stessi inquisitori, del resto, a documentare tutto ciò.
L'Illuminismo, pur nello slancio della sua critica all'Inquisizione, non poteva
ovviamente immaginare quanto discende dai risultati cui sono pervenute le più
attente, aggiornate ricostruzioni storico-storiografiche, col corredo di
un'ampia messe di materiali archivistici.
La costante
resistenziale sarda – categoria elaborata da un maestro come Giovanni
Lilliu – si può dunque applicare anche alla complessa storia dei rapporti,
sempre assai tesi, fra comunità isolana e Sant’Uffizio.
Da instrumentum Regni
a “corpo separato”. Questo tribunale, nato come instrumentum
Regni del potere monarchico – con l'obiettivo strategico
dell'assoggettamento, dell'omogeneizzazione politica, religiosa e linguistica
di un Impero composito come quello spagnolo – tende, per il potere sempre più
dilatato e dilatabile di cui va disponendo, ad autonomizzarsi, a diventare “corpo
separato”, a creare problemi d'ogni sorta per un trono verso cui, almeno in
determinati momenti, sembrava non provare soggezione. In effetti, erano i
sovrani che, non formalisticamente, dovevano togliersi il cappello ed assidersi
in un seggio collocato più in basso, rispetto a quello degli inquisitori, durante
le cerimonie delle penitenze e delle esecuzioni capitali (come venne ricordato
da Voltaire).
Si è utilizzata nel volume
l'espressione “corpo separato” anche in riferimento al ruolo dei servizi
segreti nella strategia della tensione dispiegatasi nell'Italia degli anni Sessanta
e Settanta del Novecento: tale accostamento non è sembrato, a chi scrive,
un'esagerazione o una stortura. I meccanismi che, in ogni caso, sembrano agire
in contesti storici così lontani e differenti sono questi: a) al Sant’Uffizio
la monarchia spagnola delega un compito di controllo totalitario ed ossessivo
sulla società; b) gli inquisitori, in combutta con settori dei gruppi dirigenti,
ne colpiscono altri, operanti all’interno delle istituzioni politiche ed
ecclesiastiche, con varie motivazioni, mossi anche dal fine di ampliare a
dismisura il raggio d’azione di questo tribunale; c) in ogni caso, potere
politico ed inquisitoriale convergono nell’obiettivo di assoggettamento delle
varie collettività. Allo stesso modo, in Italia, dagli anni Sessanta in poi –
dai tempi, cioè, in cui le schedature ed i dossieraggi crescono
considerevolmente – gruppi dei servizi segreti si autonomizzano, escono dal
tracciato della costituzionalità, entrano in rapporto con gruppi politici anche
eversivi, ma vengono comunque usati dai gruppi socioeconomici e politici
dominanti per mantenere il più rigido status quo.
Si è sostenuto che il Sant'Uffizio non guardava in faccia nessuno, dagli altolocati ai più umili, nello sviluppare inflessibilmente le proprie indagini: in effetti le ricerche storiche condotte in Sardegna hanno approfondito, fra l'altro, il caso dell'inquisitore Andrea Sanna. Questi, legatosi a consorterie feudali ed a uomini corrotti del governo viceregio, non esitò nell'accusare, intorno alla metà degli anni Quaranta del Cinquecento, Maria de Requesens – moglie del viceré Antonio Folch de Cardona – di aver partecipato, con le figlie, ad un sabba, a danze sfrenate ed orgiastiche, durante le quali era arrivata al punto di baciare il deretano (besar el culo) di un essere demoniaco. La Requesens e Cardona appartenevano a famiglie potenti e ragguardevoli dell'intero Impero spagnolo, ma verso di loro l'inquisitore, lungi dall'essere imparziale, fu sospinto invece dai calcoli, invero meschini, della sua adesione ad uno schieramento politico locale, baronal-feudale, oppostosi con qualsiasi mezzo allo sforzo di ristabilire la giurisdizione viceregia.
La pubblicità assicurata
dal processo di ascendenza romanistica confligge singolarmente con la rigorosa
segretezza delle carte inquisitoriali; di particolare rilievo, inoltre, il
ruolo dei boni homines, coloro che sono considerati tali non per la loro
condizione economica ma perché godono di pubblica, indiscutibile stima,
garantita dalle loro qualità morali e dai loro saperi: sia negli Statuti,
sia nella Carta de Logu li troviamo impegnati anche sul fronte
giudiziario. Un apposito capitolo della raccolta di norme dovuta alla grande
regina arborense Eleonora impone che uno scrivano debba scrupolosamente
prendere nota delle differenti posizioni assunte dalle parti in causa.
Nei processi del
Sant’Uffizio, infine, l'onere della prova non spetta al giudice-accusatore,
posto ad un livello privilegiato rispetto alla difesa, bensì all'accusato,
considerato un penitente rispetto ad una magistratura vista come
amministratrice del Sacramento della confessione, nonché delle relative
penitenze, che possono andare da quelle spirituali fino al rogo. Insomma,
l'Inquisizione – questo ci premeva dimostrare – risulta assai più arretrata di Statuti
e Carta de Logu, appartenenti ad un Medioevo per niente oscuro ma,
anzi, "illuminato": almeno per certi aspetti!
La condanna al rogo di Sigismondo Arquer, intellettuale di respiro europeo. La storia del Sant'Uffizio, nel Cinquecento sardo, è dominata dal lungo processo contro il teologo e giurista cagliaritano Sigismondo Arquer, viaggatore ed intellettuale di respiro europeo, il cui tormentato itinerario spirituale ha suscitato, fra l'altro, la lucida attenzione di Dionigi Scano, di Marcello M. Cocco, dello stesso Loi, di Massimo Firpo e di Raimondo Turtas. Entrato in rapporto con ambienti e gruppi di riformatori – e purtuttavia mai ufficialmente dichiaratosi aderente alle idee protestanti – Arquer muore arso vivo in un rogo acceso a Toledo nel 1571. Con ardore, con grande coraggio morale e fisico, egli aveva attaccato e smontato i principi giuridico-giudiziari, la dogmatica, le logiche e le procedure di coloro che sarebbero diventati i suoi carnefici. La rivoluzione di cui sono stati protagonisti Cesare Beccaria (con Dei delitti e delle pene) e Pietro Verri (con Osservazioni sulla tortura) trova alcuni significativi precedenti nelle posizioni espresse non solo da Arquer, ma anche da altri teorici, fra i quali spicca, nella seconda metà del Cinquecento, lo spagnolo Juan de Mariana.
Nel XVI secolo emerge
inoltre il caso di Antonio Angelo Carcassona (già studiato da Giancarlo
Sorgia), appartenente ad una famiglia ebrea, convertitosi e in seguito diventato
arciprete della Cattedrale di Alghero. Arrestato nel 1581, si sottrae alla
morsa delle accuse di falsa conversione grazie alle cospicue sostanze di cui
disponeva, in grado di fargli pagare una multa, ovvero un’ammenda quanto mai
salata.
Non è certo il solo a
dover fare i conti col Sant’Uffizio, la cui attività nel Seicento appare
comunque in calo: la peste del 1652-1656/57 miete vittime specialmente a Sassari
(che perde da allora il suo primato demografico su Cagliari) e rappresenta una
battuta d’arresto, come dimostra la corrispondenza dell’organismo locale con il
Supremo consiglio madrileno. Tuttavia, ancora nel 1691, vengono riesumate e
bruciate le ceneri di Francesco Perra (abitante nel villaggio de La Plassas),
accusato di eresia, di essere stato influenzato dalla “pestilenziale” dottrina
di Lutero, di proposizioni eretiche intorno al sacramento della confessione ed
alla santa messa.
Lo scempio del corpo
della donna. Un aspetto fondamentale, interconnesso a
tutti gli altri, delle pratiche repressive e giudiziarie proprie
dell’Inquisizione è indubbiamente costituito dallo scempio del corpo della
donna, condotto da una gerarchia esclusivamente maschile ed inevitabilmente
portata alla violenza: fra l’altro, nella tortura, gli inquisitori assistevano
alle scene di donne denudate che rilasciavano le proprie feci. In tale ambito,
si farà riferimento soprattutto al caso di Giulia Carta di Siligo: il suo iter
processuale, che si snoda dal 1596 al 1604-1605, è stato egregiamente indagato
dal compianto Tomasino Pinna (dell’Università di Sassari), nonché da
un’eccellente équipe di insegnanti coordinata e diretta da Loi. La persecuzione
delle donne sarde accusate di magia, di stregoneria, di essere fattucchiere ed
eretiche fa parte del disegno di una cultura dominante, contrapposta a quella
popolare. Sarebbe oltremodo sbagliato rappresentare quest’ultima come
precipitato indigesto di elementi che derivano dalla cultura “alta”, oppure
come semplice ammasso di superstizioni, come qualcosa di raffazzonato, di
incoerente: contro questa visione, assai riduttiva, si può fare utile e
prezioso riferimento ai testi di Ernesto De Martino, Carlo Ginzburg e Placido
Cherchi.
Le indagini
sull’Inquisizione aiutano inoltre a comprendere quanto siano lacunose quelle
critiche storico-filosofiche alla religione ufficiale che non pongono al centro
la tabuizzazione del corpo della donna, propria dei principali monoteismi, la
quale invece rappresenta un tema rilevante messo in luce dalla ricerca
femminista in diversi settori di studi.
A partire da questo e da altri nodi, le pagine del saggio di prossima pubblicazione si esprimono dichiaratamente e programmaticamente contro il negazionismo, il revisionismo ed anche il giustificazionismo, emersi con varie modalità nella ricerca e nel dibattito sulla storia del Sant’Uffizio: tutte tendenze che cercano non solo minimizzarne le responsabilità, ma di giustificare, almeno in una certa misura, le pratiche più aberranti.
Del 1702 è la cacciata
ignominiosa di Juan Corvacho (successore di Garrido Lozano), ad opera di don
Dionisio Gonzales de Mendoza, proveniente da Cagliari ed inviato del regio
governo. Corvacho, per riaffermare il proprio potere, aveva provocato scontri
virulenti non solo con il governo di Madrid, ma anche con la municipalità e
l’archidiocesi di Sassari. Quello che il viceré e Mendoza non si aspettavano di
certo fu il concorso di una folla enorme intorno al Castello, la quale
accompagnò in corteo questi personaggi con il loro seguito fino a Porto Torres
per l’imbarco.
La parabola di questo
inquisitore è il punto d’approdo di conflitti giurisdizionali fra il potere
politico e quello ecclesiastico, da una parte, il Sant’Uffizio, dall’altra,
documentabili anche in base alle proteste – contro le indebite ingerenze di
questo tribunale in cause al di fuori della fede – formulate dagli Stamenti,
l’antico Parlamento sardo, soprattutto nella seconda metà del Seicento (in
particolare, si vedano al riguardo gli atti parlamentari, pubblicati per
meritoria iniziativa del Consiglio regionale e curati da Guido d’Agostino, da
chi scrive e infine da Giuseppina Catani e Carla Ferrante).
Va sottolineato che
Corvacho non fu sicuramente l’unico che ricopriva l’incarico ad essere espulso
dall’isola: alcuni, la cui presenza non era più ufficialmente sostenibile, o
sopportabile dalla popolazione, vennero allontanati per ordine giunto dall’alto
e destinati ad altre, più prestigiose e remunerative sedi, secondo la classica
logica del promoveatur ut amoveatur o, se si preferisce, almeno in
questi casi, dell’amoveatur ut promoveatur. A parte Corvacho, non tutti
potevano essere rimossi e sconfessati in modo così plateale, pena la perdita di
credibilità sia del potere politico, sia di quello inquisitoriale. In ogni
caso, nel 1702 si perviene alla significativa conclusione della parabola
storica del Sant’Uffizio in Sardegna, per quanto, dopo Corvacho, ci siano state
altre nomine.
Nel caso sardo, questo
tribunale ha sempre sofferto, se così si può dire, di rendite inadeguate al
mantenimento del proprio personale, il che si ripercuoteva in varia misura, a seconda
dei tempi, sulle attività di sorveglianza, di denuncia e di quella processuale.
In proposito saranno presi in esame i dati sugli introiti del Cinquecento e del
Seicento, forniti dalle carte dell’Archivio di Stato di Cagliari, messi a punto,
integrati e sistematizzati da Loi. Questi ha avuto infine il merito di fornire
la cifra totale (certo ragguardevole) di 1315 penitenziati a vario titolo nella
storia dell’istituzione operante nell’isola.
Verso la fine.
Ormai, dopo la morte (nel 1700) di Carlo II (ultimo sovrano della dinastia
asburgica in Spagna), incombeva la Guerra di successione al trono spagnolo,
scatenata dall’ascesa di Filippo – duca d’Angiò e nipote del re di Francia
Luigi XIV – diventato Filippo V: contro di loro prendeva corpo una coalizione
politico-militare europea, allarmata dal rischio reale di una crescita della
sfera d’influenza francese.
Con la pace di Utrecht
(1713), che mette fine alla Guerra di successione, siamo giunti ormai al
tramonto della dominazione spagnola in Sardegna, nel Ducato di Milano e
nell’Italia meridionale: il venir meno dell’Inquisizione nella nostra isola –
ma non in Sicilia – coincide dunque col drastico ridimensionamento mediterraneo
dell’Impero iberico: esso aveva cercato di utilizzare il più possibile il Sant’Uffizio
come strumento di omogeneizzazione politico-religiosa, funzionale al
mantenimento della Sardegna in una condizione coloniale: questo tipo di
dipendenza è stata riconosciuta – con dovizia di argomentazioni e di dati – da
storici di diversa formazione, come il franco-americano John Day ed il già
citato Manconi, per niente sospettabili di generica adesione a categorie
interpretative schematicamente definibili come “sardiste” e terzomondiste.
In Sardegna, come in
altri luoghi geograficamente distanti ed anche assai diversi, l’Inquisizione (o
chi per essa) è stata parte integrante di un disegno di genocidio
linguistico-culturale. Ciò può essere dimostrato da un confronto fra l’attività
sviluppatasi non solo nella nostra isola, ma anche, in particolare, nei Paesi
Baschi, fino ad arrivare all’estremo Nord della penisola scandinava: per
uomini sami (lapponi) e per donne norvegesi furono accesi i roghi in seguito
alla repressione contro la stregoneria voluta, nel 1617-21 da Cristiano IV,
sovrano – protestante – di Danimarca e Norvegia.
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