Il punto sulla situazione della pandemia in Sardegna. I presupposti per un cambiamento dell’organizzazione sanitaria. I determinanti della salute. Come si può intervenire. Le disposizioni nazionali. La valutazione dei servizi sanitari.
Il punto sulla situazione della pandemia in Sardegna.
A
nove mesi dall’inizio dell’epidemia penso si possa cominciare a fare qualche
valutazione sull’andamento e sui rimedi messi in campo per contenerla. Abbiamo avuto una
prima ondata da marzo a luglio con numero di casi e decessi contenuti; da
agosto i casi sono aumentati enormemente e così pure le morti. Un’epidemia si contrasta nel territorio
identificando i malati, isolandoli e mettendo in quarantena i contatti. Questi
criteri sono conosciuti da qualche tempo e universalmente accettati. D’altra
parte è vero che i nostri servizi sanitari territoriali sono sguarniti di
personale e poco organizzati, per cui si è preferito ricorrere agli ospedali
per far fronte al dilagare della malattia. Gli ospedali se sono importanti
nella fase finale della stessa, non lo sono nel contenimento della
propagazione. La prova di quest’affermazione è data dalla situazione della
Lombardia che ha un sistema ospedaliero molto efficiente ma i valori più alti
di contagio. In questa Regione, il ricorso al privato e la competizione
esagerata tra ospedali ha reso non remunerative le strutture sanitarie territoriali
facendole scomparire. La controprova è che gli Stati che hanno affrontato
l’epidemia nel territorio hanno avuto meno casi e meno morti: Corea del sud,
Taiwan e Giappone. Per valutare poi la situazione italiana in confronto col
resto dell’Europa è sufficiente osservare la mortalità per Covid, rilevata dal
Centro Europeo del Controllo delle Malattie (ECDC) e riportata nella seguente
tabella.
In Italia e in Sardegna è stato un errore aver indicato un laboratorio di riferimento che non era in grado di soddisfare velocemente tutte le richieste, invece di autorizzare tutti i centri di diagnosi per aver risposte rapide e allargare, il più possibile, i controlli sulla popolazione. Da sempre in corso di epidemia, la prima operazione era la separazione dei malati dal resto della popolazione (l’attivazione di un lazzaretto); anche i Cinesi alle prime diagnosi di Covid19 hanno costruito un ospedale solo per gli infetti. In Italia non si è mai individuato un ospedale che ricoverasse solo pazienti colpiti da SARS-Cov-2. A dicembre la regione Sardegna ha promosso un programma per fare lo screening di massa della popolazione; proposta lodevole ma un po’ in ritardo. Sarebbe stato opportuno promuoverla agli inizi di marzo e non in contemporanea con la campagna di vaccinazione che ha bisogno di risorse e organizzazione. Altro segnale davvero negativo è che si è identificata una figura salvifica. Abbiamo due Università con numerosi professori di microbiologia, abbiamo due hub ospedalieri con laboratori attrezzati di tutto punto. Perché dunque rivolgersi a persona che viene da fuori dell’isola ma che non può avere esperienza specifica superiore a quella dei nostri esperti? Penso che sia un problema di cultura subalterna alla stessa stregua del fatto che abbiamo bisogno di non Sardi per le attività industriali, degli Arabi per il turismo e della Lega per il governo della Regione.
La pandemia in
corso ha evidenziato le criticità dei sistemi sanitari del mondo occidentale.
Progressivamente nel corso dei decenni, l’assistenza sanitaria è stata accentrata
negli ospedali, svuotando quasi del tutto quella territoriale e di prossimità.
Diciamo che nel sociale è stata una tendenza generalizzata: i bambini vanno all’asilo
nido, gli anziani nei ricoveri, i disabili in istituti e i malati in reparti di
cura. L’ospedale assolve anche compiti impropri che una volta erano demandati
alla famiglia. Il concetto stesso di disabilità è
stato oggetto di revisione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità,
che in occasione della sua 54ª riunione del maggio 2001 ha redatto
l’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF). Il
documento introduce un’innovazione passando da un’accezione legata allo
svantaggio (menomazione, malattia, etc...), dunque con ottica negativa, a una
basata su una rivalutazione in chiave positiva della situazione della persona.
L’individuo, infatti, non è visto come un elemento isolato, ma come un soggetto
inserito in ben precisi contesti ambientali e sociali che, assieme alle
condizioni di salute, contribuiscono a determinare i suoi spazi di autonomia e
di libertà. Si tratta dell’applicazione del modello “bio-psico-sociale” che fa
discendere la disabilità non solo da elementi biomedici ma anche dalla loro
interazione con quelli ambientali e sociali. Se questi presupposti sono
accettati, bisogna far in modo che i ricoveri siano ridotti allo stretto
necessario. Per fare questo i servizi sanitari territoriali non devono avere
una funzione ancillare ma un’attività propria, diversa e complementare rispetto
a quella dell’ospedale. Il primo concetto da recuperare è l’idea di salute come
diritto fondamentale dell’individuo e come strumento essenziale per lo sviluppo
sociale ed economico della società.
In altre parole, bisogna superare il
concetto strettamente sanitario di salute valorizzando i determinanti che
condizionano la vita delle persone. Per quanto riguarda i determinanti nel
mondo occidentale ci sono sostanzialmente due posizioni. La prima è quella
americana (fonte: Centers for
disease control and prevention). Lo stato di salute delle persone sarebbe
condizionato per il 50% dai loro comportamenti e dal loro stile di vita. Gli
altri fattori sono meno importanti: fattori ambientali (20%), fattori genetici
(20%), assistenza sanitaria (10%). Si tratta di un modello che mette in primo
piano il ruolo e gli stili di vita delle persone e rispecchia l’enfasi che
negli USA viene riposta nella responsabilità individuale nei confronti della
salute e delle malattie. La seconda è quella della sanità pubblica del nord
Europa in cui sono indicati alcuni determinanti non modificabili (sesso, età e
patrimonio genetico) e altri che invece sono suscettibili di correzione e
trasformazione (stili di vita, le reti sociali e comunitarie, l’ambiente di
vita e di lavoro, il contesto politico, sociale, economico e il sistema
sanitario). Questo è un modello concettuale che
da una parte riflette la cultura europea di “welfare state” fondata sul diritto alla salute, dall’altra
fa propria la visione multisettoriale della tutela della salute contenuta nella
Dichiarazione di Alma Ata dell’OMS.
Sulla base di questi principi teorici bisogna ripensare la sanità dopo la pandemia. I servizi territoriali devono avere ambiti d’intervento definiti, e gestire le cure primarie e la presa in carico dei pazienti con malattia cronica. Per fare questo è necessario il lavoro in gruppi multidisciplinari, la copertura dell’assistenza H24, e la disponibilità di strumenti o l’accesso a strutture per fare la diagnosi (laboratorio, diagnostica per immagini, elettrocardiografo etc.). Inoltre i servizi si devono porre gli obiettivi: 1) di far emergere i bisogni sanitari, sociali e di cittadinanza; 2) di porre in essere azioni preventive, curative e sociali che raggiungano fisicamente chi è ad alto rischio di vulnerabilità; 3) di sviluppare una visione condivisa di salute, promuovendo la realizzazione d’interazioni di conoscenza e collaborazione, con la comunità e le sue Istituzioni; 4) di rendere operativa la sostenibilità tecnica, sociale ed economica, con strumenti adeguati per la gestione e la rendicontazione delle risorse.
Questi
argomenti sono dibattuti da più di dieci anni e il DM 10 luglio 2007, in via
sperimentale, ha tentato di traferirli nella pratica quotidiana promuovendo la
creazione delle “case della salute”. La casa della salute, nel decreto
ministeriale, è stata pensata come struttura polivalente in grado di erogare in
uno stesso spazio fisico l'insieme delle prestazioni socio-sanitarie,
favorendo, attraverso la contiguità spaziale dei servizi e degli operatori,
l'unitarietà e l'integrazione dei livelli essenziali delle prestazioni
sociosanitarie. Rappresenta la struttura di riferimento per l'erogazione
dell'insieme delle cure primarie. Diverse regioni hanno fatto i primi tentativi con
risultati alterni, ma al momento si può dire che non sono la struttura portante
dell’assistenza territoriale. In Sardegna siamo in ritardo anche rispetto al
dibattito sull’argomento. La legge di riforma approvata dalla Regione Sardegna
nel mese di Agosto scorso si pone l’obiettivo di una riorganizzazione delle
strutture e del management ma non si occupa minimamente della riorganizzazione
delle cure.
Una buona governance dei sistemi sanitari è strategica per la garanzia della copertura sanitaria universale. Il tema è reso cogente dall’impatto economico e dal peso sempre maggiore che occupa negli atti programmatori dello Stato e delle Regioni. Il dilemma che in questo momento si pone, in Sardegna e in Italia, è di contemperare la soddisfazione dei bisogni di salute della popolazione con un impegno di spesa che sia sostenibile. Per far fronte a questo problema, i servizi sanitari devono essere periodicamente riesaminati e valutati per migliorare la qualità delle cure e per evitare tagli indiscriminati in caso di eccesso di spesa. In un processo di valutazione sanitaria sono rilevate e prese in considerazione: 1) indicatori di soddisfazione del paziente e del caregiver; 2) indicatori di soddisfazione dello staff; 3) indicatori di processo assistenziale; 3) indicatori di esiti clinici; 4) indicatori di esiti sui costi. Per arrivare a questo, bisogna creare una cultura sanitaria che accetti la valutazione come metodo di lavoro e come garanzia degli utenti. Inoltre tutti i processi vanno registrati, riesaminati e studiati, tenendo in mente la raccomandazione di William Edwards Deming, statistico americano: “In God we trust. All others must bring data”.
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