SA DIE DE SA SARDIGNA A SASSARI. UN CONTRIBUTO CONTRO LA DAMNATIO MEMORIAE DEI MARTIRI ANGIOYANI di Piero Atzori
Sa Die de sa Sardigna a
Sassari -
Càimini vecciu, forche e giardino della memoria - Il sito delle Forche
Vecchie - Gli angioyani e le Forche
Vecchie - Lu
Càimini vecciu e la toponomastica - La Damnatio memoriae e chi si oppose - Considerazioni
finali
Foto del muro con
nicchia di Madonna, sito in via Repubblica Romana, appartenente al Carmine
extra muros.
Sa Die de sa Sardigna a Sassari. Sabato 27 aprile 2019, ha avuto luogo a Sassari un evento teatrale che ha
rievocato alcune vicende significative della città e dell’intera Sardegna.
L’assedio e la conquista di Sassari da parte delle masse rurali guidate da
Francesco Cillocco e Gioachino Mundula, tra i principali seguaci di Giovanni
Maria Angioy, leader del movimento antifeudale isolano (dicembre 1795). In
particolare, la drammatizzazione ha inteso richiamare l’attenzione del pubblico
sul tentativo messo in atto nel settembre del 1796 da Cosimo Auleri, Salvatore
e Pietro Muroni e altri. Essi radunarono diverse centinaia di uomini presso le
porte di Sassari, in località “Forche Vecchie”, per liberare coloro che erano
stati rinchiusi dal governo sabaudo nel carcere cittadino di San Leonardo, dopo
la sconfitta subita da Angioy al ponte di Tramatza, presso Oristano e il
successivo espatrio.
Di seguito pubblichiamo uno studio di Piero Atzori, già docente nel Liceo
scientifico “Giovanni Spano” di Sassari, che ha voluto collegare le vicende
storiche del 1796 alla toponomastica cittadina che esclude completamente la
memoria del triennio rivoluzionario sardo 1793-96, cruciale per la nostra
isola. Con Federico Francioni (anch’egli è stato docente nello stesso Liceo),
Atzori ha fornito la sua consulenza per la realizzazione dell’evento teatrale
ad opera della compagnia “S’Arza”. Sotto la direzione del regista Romano
Foddai, autore della scrittura scenica, hanno recitato Maria Paola Dessì,
Stefano Petretto (che ha collaborato alla stesura dei dialoghi), Roberta
Campagna, Francesco Petretto e Dianora Sechi. Hanno partecipato il coro “Amici
del canto sardo”, diretto dal maestro Salvatore Bulla e il corpo di ballo
tradizionale “Monte Alma” di Nulvi. Lo spettacolo è già stato proposto in
alcuni istituti cittadini e verrà replicato.
Càimini
vecciu, forche e giardino della memoria. Questa è una sintesi della ricerca
finalizzata a fornire una base storica al Giardino pubblico previsto dal Piano urbanistico
di Sassari in zona Meridda di, spero, prossima pubblicazione. Tale ricerca sta fra
l’altro evidenziando il fatto che i nomi dati nel corso del Novecento alle
strade nell’antica regione sassarese di lu
Càimini vecciu nulla hanno a che vedere con la storia del luogo.
Il sito delle Forche Vecchie. Costruite nel
1737, erano quelle
ordinarie, in muratura, con intorno un ampio spazio aperto, in un punto
panoramico. Fu il viceré, marchese di Rivarolo a farle costruire, anzi ricostruire,
giacché in regione Carmine vecchio le forche fisse c’erano da tempi remoti. Dismesse nel 1856, nei loro
119 anni di attività, stando ai dati
sparsi e frammentari riportati da Enrico Costa, il più importante storico della
città, videro la morte un numero di condannati nell’ordine delle migliaia.
In
mancanza di una carta topografica che indichi esplicitamente il sito delle Forche
Vecchie, abbiamo varie indicazioni per individuarlo in modo abbastanza preciso.
Ne elenco cinque.
I.
Enrico Costa riferisce di una ricevuta di
pagamento del 5 aprile 1737 di mastro Baingio Pugioni, di Lire sarde 53.19, per
aver costruito “les arcas nuevas, vecino
al Carmen de afuera, e cioè per cantoni, calce, rena, quattro travi, due
travicelli, para hacer las escaleras, ecc.”. Tale ricevuta certifica la nascita
di queste forche, definite “nuove” nel 1700 e “vecchie” nel 1800 e indica che
erano vicine alla chiesa del Carmine vecchio.
II.
Padre Antonio Sisco, frate conventuale di
Santa Maria, sul finire del 1700, indica la posizione reciproca di convento e forche
con la frase inequivocabile:
“L’altro convento era quello del Carmine
di fuori, discosto dal Pozzo di rena un tiro di sciopo, in quella pianura sopra il patibolo, in faccia a quelle vigne”.
Ponendoci dunque idealmente con padre Sisco vicini al Pozzo di Rena (attuale
Emiciclo Garibaldi), guardando la chiesetta campestre del Carmine che si trova sul
pianoro a 350 metri in linea d’aria verso Sud (nell’attuale via Repubblica
Romana), le forche si trovavano quasi nella stessa linea, più vicine e più in
basso del convento.
III.
Scrive Enrico Costa: “Il patibolo fisso era collocato nel Carmine vecchio, verso il Giardino
pubblico, all’imbocco della strada di Rizzeddu. Consisteva in quattro
pilastri di pietra, sul quale erano collocati quattro travi, formando un
quadrato. Sul trave che guardava Pozzo di Rena s’impiccava, appoggiandovi le
due scale, una per il prete, l’altra per il boia e il paziente, che vi saliva a
ritroso. Nelle altre travi laterali e posteriore si conficcavano le teste dei
giustiziati, che venivano quivi lasciate per lungo tempo, finché cadevano …”.
IV.
Giuseppe Cominotti, nell’acquerello del 1823,
in cui rappresenta Sassari vista da Sud, fornisce la posizione, ricavabile
dalla scritta presente in calce al quadro: La vue est prise de
l’ancien Convent des carmes à la distance de la Fabrique de tabac m. 468 et au dessus du niveau de la mer 214 m. Siccome da questa posizione
Cominotti non inquadra le forche, è da ritenere
che le stesse fossero nascoste, rispetto al suo punto di osservazione, verso
Est, ossia verso la sua destra.
V.
Nell’Archivio storico
di Sassari, tra le delibere del Consiglio delegato e del Consiglio comunale di
Sassari del 1856, se ne trovano alcune relative allo spostamento delle forche presso
la chiesa di San Paolo (che tuttora affianca il cimitero cittadino). Tale
decisione venne presa in quanto le Forche vecchie si trovavano ormai “quasi dentro il perimetro del giardino
pubblico”.
L’unico esito della ricerca cartografica da me
condotta presso l’Archivio storico di Sassari e presso l’Archivio di Stato di
Sassari, per riscontrare i dati appena elencati, è finora la Planimetria dell’orto di Sant’Elia in Piazza
d’Armi (estratta dal Piano regolatore di Sassari ed allegata alla Convenzione fra il Conte Arborio Mella di
Sant’Elia e il Comune di Sassari del 3 novembre 1910, relativa all’ampliamento
della città a sud-ovest dell’attuale Piazza d’Armi).
A
destra della Planimetria, poco fuori dall’orto dei Sant’Elia, in ex proprietà Schiaffino,
si può notare un quadrato di dimensioni
e orientamento compatibili con le Forche Vecchie. A circa dieci metri da
questo verso Ovest, si nota anche un quadratino che potrebbe indicare il luogo
dove s’incenerivano i corpi. Le Forche Vecchie erano dunque situate a
margine dell’attuale via Quarto, più o meno in corrispondenza del numero civico
8, a circa 75 metri a Nord della chiesetta del Carmine extra muros e a circa
280 metri dal Pozzo di Rena.
Mappa attuale che, evidenziando le proprietà
ottocentesche, include la posizione
della Chiesetta del Carmine di fuori, oggi ridotta ad un muro, la posizione in
via Quarto delle Forche Vecchie (in blu), al posto delle quali c’è un palazzo e,
in colore, l’area destinata a Giardino pubblico, ideale come luogo della
memoria.
Gli angioyani
e le Forche Vecchie. Il 2 giugno 1796,
all’inizio del suo viaggio da Sassari verso Cagliari, Giommaria Angioy, imboccata
la strada di Rizzeddu, che era la strada per Tissi, vide sulla sinistra le Forche
Vecchie. Egli non poteva prefigurarsi che proprio lì si sarebbero presto spenti
i sogni di riscatto dell’isola.
Il 17 settembre 1796, in prossimità delle Forche
Vecchie, avvenne lo scontro armato citato
in premessa. I rivoltosi, provenienti principalmente da Bonorva e da Florinas,
ma anche da Thiesi, Ittiri, Muros e da Osilo, si radunarono nell’oliveto del reverendo
beneficiato turritano Juan Pinna Sacajoni - direi tra le attuali via Alghero e
via Tempio - in vista delle mura, in attesa di un segnale interno di sommossa (che
non arrivò), con lo scopo di liberare gli amici prigionieri, di riprendere la
città e di saccheggiare le case dei feudatari. Inferiori in numero e in
armamento rispetto alla regia truppa, dopo i primi morti e i feriti, gli
angioyani si dettero alla fuga verso Scala di Giocca.
Erano presenti diversi sassaresi. C’erano il
notaio Antonio Luigi Petretto, repubblicano, con Francesco e Ignazio suoi
figli, ai quali premeva di liberare Antonio Vincenzo, rispettivamente figlio e
fratello; c’era il sedicenne Paolo Mundula, il cui fratello Giuseppe, di tre
anni più grande, era anche lui detenuto nel carcere di San Leonardo. Si tratta
di due figli dell’avvocato Gioachino Mundula, fervente repubblicano, morto in
esilio a Parigi nel febbraio 1799. Paolo Mundula cadde prigioniero e fu
condannato a sette anni di carcere, scampando alla forca in ragione della sua
giovane età.
Nel settembre del
1796, fallì dunque il tentativo degli angioyani di liberare i compatrioti. Tra
questi ricordiamo: Gavino Fadda, Antonio Vincenzo Petretto, Antonio Maria
Carta, Giuseppe Mundula, Quirico Spanu, Gaspare Sini, Giovannico Devilla
Petretto, Antonio Luigi Devilla Manca, Sebastiano De Aquena. Sette giorni dopo,
il 24 settembre, iniziarono le impiccagioni degli angioyani, che qui di seguito riporto in ordine cronologico, con i dati anagrafici
finora raccolti e con notizie circa le famiglie. Ben otto patrioti trovarono la
morte alle Forche Vecchie.
1.
L’avvocato Baingio Fadda,
impiccato il 24 settembre 1796 davanti al Palazzo Civico, fizu de Juanne Fadda (forse osilese) e di Maria
Antonia Petretto; Baingio aveva almeno sette fratelli ed era cugino primo di
Antonio Vincenzo Petretto; egli era nato a Sassari il 23 ottobre 1753 ed
era sposato con almeno una figlia;
2.
il commerciante Antonio
Vincenzo Petretto, impiccato il 6 ottobre 1796 alle Forche Vecchie,
figlioru di lu notaiu Antonio Luigi
Petretto e di Maria Piria; Antonio Vincenzo aveva quattro fratelli ed era
cugino primo di Baingio Fadda e di Giovannico Devilla, era nato a
Sassari il 29 luglio 1767, si era sposato con Vittoria Martinetto ed aveva due
figli, un terzo, Antonio Vincenzo Gaetano, era in arrivo;
3.
il conciatore Antonio Maria Carta, impiccato il 6 ottobre 1796 in Carra Manna, “figlioru
di Franzischu”, nato a Sassari nel 1763 circa;
4. lo scarparo Giovanni Antonio Mereglias, impiccato
il 23 marzo 1797, presumibilmente alle Forche Vecchie, fizu de Sarvadore
Mereglias e di Antonia Canu Saba di Florinas; egli aveva almeno quattro
fratelli, era nato a Florinas il 25 ottobre 1752 ed era sposato con l’ittirese Maria Teresa Pes, da cui aveva avuto sei figli;
5. il notaio Filippo Serra, fizu de Luisu Serra Santinu e Luisa ‘e Tori, di Osilo, impiccato
presumibilmente il 6 aprile 1797 alle Forche Vecchie; Filippo aveva nove
fratelli ed era sposato con Maria Serra Marceddu, con tre figli e una, Maria
Filippa, nata il 12 aprile, pochi giorni dopo l’impiccagione del padre;
6. Salvatore Quessa (Chessa), di Osilo, impiccato nell’aprile
1797, presumibilmente alle Forche Vecchie;
7.
il medico Gaspare Sini, impiccato
il 22 aprile 1797 alle Forche Vecchie, fizu de Zuseppe Sini di Bonnanaro e di
Juanna Murgia; Gaspare era nato a Sassari e si era sposato a
S.Apollinare il 12 dicembre 1786 con Maria Antonia Tola, aveva almeno un figlio
di nome Giuseppe;
8. il commerciante Giovannico Devilla, impiccato il 22
aprile 1797 in Carra Manna, figlioru di
Juanne Devilla e di Antonia Piria, cugino primo di Antonio Vincenzo Petretto, era
nato a Sassari il 31 marzo 1758 ed era sposato con Anna Solinas, con sette
figli;
9.
lo scarparo Giovanni Pintus, su Toppu, impiccato il
6 settembre 1797, presumibilmente alle Forche Vecchie; Juanne fiat fizu de
Juann’Antoni Pintus e de Juannanghela Tola e fiat naschidu in Bonorva su 31 de lampadas
1767;
10. lo scritturale Luigi Martinetti, repubblicano,
impiccato il 12 luglio 1802 presumibilmente alle Forche Vecchie, era figlioru
di Duméniggu Martinetti, di nazione corsa e di Caddarina Lega; Luigi era nato
il 30 gennaio 1773 ed aveva dunque 29 anni sebbene ne dichiarasse al giudice 24
(nell’idea illusoria di scampare alla forca); egli aveva cinque fratelli, tolti
quelli morti in fasce;
11. il notaio Francesco Cillocco, repubblicano, impiccato l’11 agosto 1802 alle Forche
Vecchie, fillu di Micheli Cillocu e
di Juanna Pisano; Francesco aveva sei fratelli ed era nato a Cagliari il 20
dicembre 1769, aveva 33 anni ed era sposato con Giuseppa Licheri.
Lu
Càimini vecciu e la toponomastica. Non
c’è più traccia visiva della storia dell’antica regione chiamata per lo spazio
di tre secoli Càimini vecciu, Carmen viejo (sp.), Carminu ezzu
(log.), infine Carmine vecchio, se non il muro seicentesco con nicchia di Madonna
dell’umilissima chiesetta campestre del Carmine in via Repubblica Romana e pochi
resti di muri di orti ottocenteschi. I confini di questa regione erano a Ovest
S. Agostino, a Nord l’area che diventerà giardino pubblico e piazza d’Armi, a
Est Serra Secca. Il confine Sud era l’aperta campagna. Nella zona a Est di via
Rizzeddu, oggi via Paoli nel primo tratto, alternativamente a Càimini vecciu si
diceva anche Càimini di fora.
E’ profondamente
cambiata la fisionomia del luogo. Dismesso e poi scomparso il convento (1765),
sparite vigne, orti e oliveti, il toponimo Caìmini
vecciu venne gradualmente sostituito da “Forche Vecchie”. Quest’ultimo toponimo
lo troviamo negli atti processuali contro gli angioyani. In Forche Vecchie si
trovava infatti l’oliveto del Reverendo Beneficiato turritano Juan Sacajoni
dove si radunarono le centinaia di rivoltosi di cui si è accennato. Dopo la
dismissione delle forche, si ritornò al toponimo “Carmine vecchio” e poi, nel
900, subentrò la denominazione di “Rione Porcellana”. Tale rione, prima che il Quartiere San
Giuseppe, nel secondo dopoguerra, gli
prendesse la parte alta, si estendeva fino a superare l’attuale Via Tempio, con
strade larghe dieci metri intersecantesi ortogonalmente e le più importanti larghe
oltre quindici metri. Un disegno di ampliamento della città di architetti
piemontesi. Via Rizzeddu, antica carrareccia che conduceva a Tissi, diventò in
questo reticolo una diagonale. Intorno al 1930, s’idearono quelle che poi,
negli anni sessanta e settanta, si chiamarono via Quarto e via Repubblica
Romana. I nomi delle vie qui appresso elencate dalla più antica alla più
recente, non seguono un filo logico in quanto rispecchiano tempi e idee
diverse.
·
Via Piazza d’Armi,
che prima era via Carmine vecchio risale all’incirca al 1850;
·
via Francesco Murroni
fu denominata il 31/1/1901, così, con l’errore della doppia erre dello storico
Giuseppe Manno, dalla Giunta comunale. Con la stessa delibera furono intitolate
anche le vie a Francesco “Cilocco”, a Gioachino Mundula, a “Gio. Maria Angioi”.
“Murroni”, fu poi corretto in Muroni;
·
via Risorgimento
risale al periodo tra il 1910 e il 1920;
·
via Pompeo Calvia,
prima “prolungamento di Via Ozieri”, fu denominata nel 1935;
·
via Pasquale
Paoli, primo tratto dell’antica strada di Rizzeddu, fu denominata nel 1940, con
le motivazioni del nazionalismo italico (Paoli rivendicava l’italianità della
Corsica);
·
via Quarto, via Gaetano
Salvemini e via Repubblica Romana, disegnate nei primi anni trenta, furono
denominate rispettivamente nel 1960 (centenario del’impresa dei Mille), nel
1967 e nel 1973.
Si può osservare che l’unico, insufficiente
nesso con il passato è via Francesco Muroni, che sale da corso Angioy verso il
sito delle Forche Vecchie, come da un
luogo di speranza verso il luogo della fine del sogno angioyano. Per il resto
l’odonomastica adottata per l’ex regione del Carmine vecchio prescinde totalmente dalla storia del luogo. Di sassarese è
rimasto “Rizzeddu”, come se i sassaresi siano solo di passaggio verso la valle
di Gioscari, a curare le loro colture.
Quando si scelsero i nomi delle nuove
vie contava solo il Risorgimento italiano (via Risorgimento, via Repubblica
Romana, via Quarto, via Dei Mille). Un Risorgimento utilizzato per cancellare la
memoria di chi tra il 1796 e il 1802 morì per il riscatto sociale ed economico
della Sardegna.
La Damnatio memoriae e chi si oppose. Partì già dal 1796, quando ebbe inizio il vilipendio dei corpi degli
angioyani impiccati dopo sommario giudizio. Quarant’anni dopo è lo storico
Giuseppe Manno che svilisce le figure degli angioyani. Il primo a denunciare
l’operazione fu, nel 1857, Francesco Sulis (1817-1877), docente di diritto costituzionale e deputato al parlamento subalpino, con
le seguenti belle e forti parole, riprese poi, nel 1984, dallo storico Girolamo Sotgiu:
“… sovra ogni rispetto
dee stare il culto del Vero, che pel passato non fu abbastanza onorato; dee
stare la riverenza agli infortuni della patria, i quali nella nostra non ebbero
conforto, come altrove, dal patibolo dei propri martiri; giacché per ogni altra
provincia italiana da quei patiboli e dal sangue vennero fortissimi esempi di
virtù che glorificati da sincere narrazioni, furono ammaestramento e quindi
profitto ai posteri. Ed invece in Sardegna s’ebbe la pretensione di gittare
nell’oblio, e peggio, nel disprezzo i patimenti e la morte dei patrioti ...”.
Nel 1885, fu Enrico Costa a rompere nuovamente il silenzio su
quelli che lui definisce “martiri per la libertà”, con la pubblicazione del
primo volume di “Sassari”.
Nel 1901, fu la Giunta municipale guidata dal sindaco Gaetano
Mariotti (calangianese) che intitolò un corso ad “Giovanni Maria Angioi”, una
via a “Francesco Murroni”, una viuzza a “Gioacchino Mundula” e un vicoletto al
grande “Francesco Cilocco”. Si trattò di un coraggioso riconoscimento ad alcuni
tra i più importanti protagonisti dei moti antifeudali e antimonarchici.
Nella prima metà del novecento ripresero il silenzio e la
denigrazione. Lo storico Sebastiano Pola, da posizioni monarchiche e fasciste,
compì ricerche tanto importanti quanto piegate alla sua ideologia e le sue
considerazioni sono giustificative della damnatio
memoriae già in atto. Il titolo del suo lavoro del 1927, “Gli avanzi
dell’angioinismo contro Sassari” è liquidatorio. Persino Camillo Bellieni accettò
e fece proprio il giudizio negativo sugli angioyani, visti come “conniventi con
la Francia”. Una posizione allineata a quella degli esponenti di un feudalesimo
mai superato e a ben guardare presente ancor oggi in forme riciclate. Le vicende
degli angioyani rimasero dunque in ombra per quasi tutto il Novecento, fino al
contributo di diversi storici. Siamo a due secoli esatti dalla disfatta di
Angioy. Credo sia giunto il momento di fare un passo avanti.
Considerazioni finali. La storia angioyana conculcata ci dà ancora oggi il punto da cui
ripartire per progettare il riscatto dell’isola. Lo stesso Risorgimento
italiano, al quale la Sardegna partecipò, si fondò in qualche modo sulle ceneri
degli angioyani misconosciuti. Ciò è vero alla lettera nel sito delle Forche
Vecchie, dove, per ultimo, il corpo martoriato di Francesco Cillocco fu ridotto
in cenere. Nel 1960, al tratto tra via Calvia e via Paoli fu assegnato il nome di
via Quarto. Suppongo che Garibaldi, Mazzini e quant’altri, sapendolo, si sarebbero
tolti il cappello davanti ai nostri martiri e non avrebbero accettato di
prendere posto laddove questi furono immolati.
Molti
chiedono oggi di togliere i Savoia dalle piazze e strade principali dell’isola.
Ritengo l’istanza condivisibile. Va comunque osservato che l’istanza stessa acquisterebbe
credibilità se prima si provvedesse a ricordare coloro che persero la vita nei
moti antifeudali e nel successivo tentativo d’insurrezione promosso dallo
stesso Cillocco e da Francesco Sanna Corda nel 1802. Non basta cioè ricordare
Angioy, Cillocco, Muroni, Mundula. Alludo alle
quattro vie intitolate agli stessi a Sassari nel 1901. Ci sono altri uomini e
donne a cui rendere onore. Solo dopo si potrà provvedere a sostituire le
figure dei carnefici con quelle di chi, misconosciuto, combatté il feudalesimo
e la monarchia sabauda che lo sostenne a detrimento dell’interesse dell’isola. Ritengo che il luogo più idoneo della memoria
dei martiri angioyani prima elencati sia il Giardino pubblico da cui siamo
partiti.
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