LA RIORGANIZZAZONE DEL SERVIZIO SANITARIO IN SARDEGNA di Mario Budroni

 

 



L‘iniziativa privata diventa sempre più aggressiva. Il SSN (Servizio Sanitario Nazionale) è sempre più in difficoltà e non riesce a soddisfare la domanda. Le politiche per la salute sono nel mezzo di una profonda trasformazione a livello internazionale. Con la presidenza Trump sono arrivati negli ultimi mesi gravi tagli ai finanziamenti per l’Organizzazione mondiale della sanità – che ha avviato una profonda ristrutturazione interna e una riduzione delle proprie attività – la chiusura dell’US AID, che finanziava molti progetti sanitari nel Sud del mondo, la riduzione dei fondi per i NIH (National Institutes of Health). Per contro si fa più aggressiva l’iniziativa privata e crescono quelle finalizzate a costruire un “secondo pilastro”: fondi sanitari, assicurazioni e welfare aziendale. Il segnale di crisi del SSN regionale: è dato dalla continua modificazione dell’organizzazione delle strutture operative a livello regionale. Prima si sono creati gli ospedali hub and spoke; poi si è creata l’ATS (Azienda Tutela della Salute), unica per la Regione, a immagine dei modelli lombardi; si è abbandonata l’ATS e si è creata l’ARES (Azienda Regionale Salute) e otto ASL (Aziende Sanitarie Locali).

Oggi assistiamo ad un nuovo intervento legislativo sulla sanità (LR 11/03/2025 n°8). Tutte queste modifiche legislative non hanno prodotto cambiamenti in positivo della sanità negli ultimi anni e bisogna di conseguenza pensare ad altre vie.

Che cosa si può fare per invertire il declino del SSN? In sintesi si possono ipotizzare cinque azioni principali:                                                                                                     

1)         Definire una posizione politica chiara sul mantenimento della sanità nella sfera pubblica non solo a parole ma anche nei fatti. Secondo la Fnomceo (Federazione nazionale degli Ordini dei medici), dal 2012 al 2022, per le figure sanitarie, a tempo determinato o interinale, si registra un balzo di +75,4%. Nello stesso periodo, le figure sanitarie a tempo indeterminato sono aumentate solo del 2,6%.  La spesa per lavoro a tempo determinato, consulenze, collaborazioni, interinale e altre prestazioni di lavoro sanitarie e sociosanitarie, provenienti dal privato, è stata pari a 3,6 miliardi di euro nel 2022, con un incremento del +66,4% rispetto al 2012. Nello stesso periodo, la spesa per il personale permanente è aumentata solo del 6,4%. La spesa sanitaria si compone di due macro-categorie: spesa pubblica e spesa privata, che include quella intermediata da fondi sanitari e da polizze assicurative e la spesa out-of-pocket, direttamente sostenuta dalle famiglie. Queste tre componenti sono coerenti con le leggi di riforma sanitaria, in particolare il DL 502/92, che hanno implicitamente individuato tre pilastri su cui basa il SSN per garantire il diritto alla tutela della salute:

La sanità pubblica, basata sui principi di universalità, equità e solidarietà

La sanità collettiva integrativa, attraverso i fondi sanitari

La sanità individuale, attraverso polizze assicurative.                             

 Tale modello era basato su alcune assunzioni fondamentali: il finanziamento pubblico garantisce i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), la sanità collettiva integrativa copre prevalentemente prestazioni extra-LEA e ogni cittadino può stipulare polizze assicurative individuali, oltre che acquistare direttamente beni e servizi sanitari, beneficiando di specifiche detrazioni fiscali. Secondo i dati ISTAT-SHA del sistema dei conti della sanità (utilizzati dalla Ragioneria Generale dello Stato), la spesa sanitaria totale per l’anno 2023 è pari a € 176.153 milioni così ripartiti:

 ° € 130.291 milioni di spesa pubblica;

€ 45.862 milioni di spesa privata, di cui:

o € 40.641 milioni di spesa out-of-pocket

o € 5.221 milioni di spesa intermediata:

€ 3.988 milioni: assicurazioni sanitarie volontarie

€ 445 milioni: istituzioni senza scopo di lucro

€ 788 milioni: imprese

 2) Motivare il personale che lavora nelle strutture pubbliche. Il primo passo dovrebbe essere il rispetto e riconoscimento di tutte le funzioni sanitarie dai primari sino agli OSS ultimi assunti, senza creare gerarchie all’interno della stessa funzione. Sicuramente è necessario sgravare il personale sanitario da incombenze burocratiche spesso inutili. Bisogna poi facilitare il lavoro con informatizzazione e digitalizzazione. I sindacati propongono, per arrestare l’emorragia di professionisti e garantire un servizio di qualità:

       °Aumento delle retribuzioni agli standard dei paesi OCSE e superamento dei vincoli normativi che impediscono la crescita salariale;

    Sgravio contributivo per incentivare l’assunzione di personale e la sua permanenza all’interno del sistema pubblico, riducendo il carico fiscale e facilitando la gestione delle risorse umane nel SSN;

    Detassazione stabile al 5% per gli straordinari e i premi di risultato, al fine di premiare i professionisti che mettono a disposizione ore extra per colmare le carenze strutturali e rispondere alle emergenze del sistema sanitario. Piani straordinari di assunzione, con incentivi di carriera per chi lavora in aree disagiate o reparti ad alta intensità;

      Promozione del benessere lavorativo, attraverso politiche di prevenzione del burnout e di sostegno psicologico, con focus sulla qualità della vita lavorativa e l’organizzazione del lavoro.

    Aggiornamento degli attuali profili professionali per garantire che siano al passo con le innovazioni scientifiche e tecnologiche e che riflettano le reali esigenze del sistema sanitario moderno.

    Potenziamento dell’autonomia professionale, per dare ai professionisti il ruolo di protagonisti nella promozione della salute pubblica e nel miglioramento della qualità delle cure.

    Digitalizzazione funzionale per ridurre il carico burocratico, migliorare l’efficienza e liberare tempo per le attività assistenziali dirette, permettendo un miglior utilizzo delle risorse umane nel sistema sanitario.

    Investire in tecnologie digitali accessibili e interoperabili, coinvolgendo il personale sanitario nei processi decisionali per creare un sistema sanitario più agile e orientato ai bisogni dei cittadini.

      Rivedere la normativa sui lavori usuranti per riconoscere come tali le professioni sanitarie più esposte a rischi e stress, come infermieri, operatori socio-sanitari e medici.    


             

3) Il problema principale della sanità in Sardegna è che Regione e Asl non governano i bisogni di salute della popolazione ma lavorano sulla base della domanda indiscriminata. Se il SSN, attualmente in grosse difficoltà, fosse un’azienda privata, l’amministratore si sarebbe organizzato per individuare le difficoltà e i problemi, pesando la capacità di risolvere in proprio o chiedendo aiuto esterno.  Attualmente tutti chiedono di accedere al SSN ma non esiste nessuna verifica dei bisogni reali. Per fare questo la Regione deve uniformare i sistemi informativi regionali (ASL 1 e AOU hanno sistemi che non comunicano), ogni ASL, o meglio ogni distretto, deve conoscere il numero dei ricoveri e il numero dei pazienti cronici con rispettive diagnosi. L’ASL dovrebbe inoltre aver chiare le proprie capacità di lavoro per quanto riguarda le cure primarie, la specialistica e i ricoveri. Sulla base di queste informazioni dovrebbe programmare le visite periodiche per i cronici, l’assistenza ai pazienti dimessi dall’ospedale e la distribuzione dell’utenza sulla base delle capacità di lavoro: ospedale, territorio e convenzionati. Questa procedura si chiama offerta proattiva Altro punto importante è la presa in carico dei pazienti; che in altre parole vuol dire che un solo medico gestisca il paziente, ne conosca le condizioni specifiche, richieda e riceva gli accertamenti e prescriva i farmaci.

4) Nonostante lo scopo ultimo della sanità sia sempre quello di garantire la salute del paziente, alcuni fattori contingenti, come la politica sanitaria e la disponibilità di risorse, costringono il settore a raggiungere questo risultato in un’ottica di efficacia (puntare all’obiettivo) ed efficienza (con il miglior utilizzo possibile delle risorse umane, tecnologiche ed economiche disponibili). L’uso degli indicatori di qualità in ambito sanitario è utile per diversi motivi:

    permettono il monitoraggio dell’efficacia di cura fornite;

    sono in grado di evidenziare le aree dove è possibile migliorare ancora, o dove insorge un rischio sulla sicurezza dei pazienti;

    la trasparenza dei dati e il confronto, con le altre strutture su diversi piani, responsabilizzano la dirigenza e gli operatori a fare meglio;

      dà al paziente la possibilità di scegliere la migliore struttura in cui farsi curare.

Non penso che esista un’azienda privata che non faccia il controllo economico e di qualità delle proprie attività almeno una volta all’anno.  Alcune valutazioni, sulla base di alcuni indicatori, vengono fatti dall’AGENAS (Agenzia Nazionale Sanità), tuttavia credo che la Regione non possa esimersi da una propria valutazione più approfondita. A sostegno di questa affermazione, possiamo ricordare che secondo la FADOI (Federazione Associazione Dirigenti Ospedalieri Internisti), a livello nazionale, il 25% dei ricoveri nei reparti di medicina sono impropri. In Sardegna si fanno gli screening della Mammella, del Colon e della Cervice uterina, ma nessuno verifica se la qualità della vita dei pazienti è migliorata o la mortalità diminuita. Per i pazienti oncologici, si fanno terapie, che sono molto costose, ma non ne conosciamo i risultati.

5)  L’articolo 13 della legge regionale n° 8/2025 istituisce l’IRCS (Istituto di Ricerca a Carattere Scientifico) nell’ospedale Brotzu di Cagliari ed il CRPPS (Centro Regionale per la Prevenzione e la Promozione della Salute) nell’azienda socio-sanitaria locale n. 7 del Sulcis. L’ospedale Brotzu dovrebbe diventare una struttura altamente specializzata su argomenti specifici (oncologia), e quindi verrebbe meno una funzione di ospedale generale, che non si sa a chi verrà affidata. Per quanto riguarda il CRPPS possiamo ricordare che, per la sorveglianza della sola specialità dell’oncologia, a Sassari si aveva bisogno di collaborazione con gli Istituti tumori di altre regioni e con l’Istituto Superiore di Sanità, nonostante la presenza della Facoltà di medicina dell’Università. Ora si propone di mandare in periferia una struttura con funzioni molto ampie e gravose.

L’autore dell’articolo, Mario Budroni, medico epidemiologo, ha curato per vari anni il Registro Tumori della Provincia di Sassari, unitamente al prof. Francesco Tanda, docente nell’Ateneo turritano.

 

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