ENRICO BERLINGUER: PER UNA LETTURA NON APOLOGETICA DEL SUO ITINERARIO POLITICO di Federico Francioni

Premessa. A quarant’anni dalla morte di Enrico Berlinguer (1922-1984), sulla stampa sono risultati prevalenti i ricordi commossi, inevitabilmente legati, in primo luogo, alla sua morte drammatica, possiamo dire, sul campo, dopo un malore, un ictus che l’aveva colto durante un comizio a Padova. Da tempo i più stretti congiunti, ma anche compagni e amici, osservavano con preoccupazione il volto sempre più segnato dalle fatiche di un’attività senza sosta, dalla persistente volontà di rendere assolutamente prioritario nella sua vita l’impegno politico-organizzativo e ideale. La scomparsa del segretario generale del Partito comunista italiano contribuì potentemente a farne un’icona, ben oltre il funerale di Palmiro Togliatti – avvenuto in tempi di più accentuata Guerra fredda – cui Renato Guttuso aveva dedicato una sua ormai classica opera. Mercoledì 13 giugno 1984, dietro il feretro di Berlinguer, più di un milione di persone sfilarono in corteo a Roma fino a piazza San Giovanni. La commozione fu indubbiamente enorme.
La provenienza, da una componente alla sinistra del Pci, di chi scrive le presenti note non induce certo alla dissacrazione, ma ad una più attenta disamina e ad una valutazione fondatamente critica, fattori non rilevabili, o quasi, nella pubblicistica sul leader sassarese, apparsa nel 2024. In tale direzione, è doveroso il riferimento all’opera di Giuseppe Fiori, Vita di Enrico Berlinguer (edita da Laterza, Roma-Bari, 1989). Sembra quasi superfluo ricordare che Fiori – autore, com’è noto, di un’eccellente biografia di Antonio Gramsci e di quella su Silvio Berlusconi, non adeguatamente letta, considerata e valorizzata – era ben lontano da posizioni estremiste o radicali.A San Sebastiano nel 1944. Appare in
primo luogo indispensabile ricordare che Berlinguer fu detenuto per cento
giorni nel carcere sassarese di San Sebastiano in seguito ai moti del pane
esplosi in città nel 1944. Gli arrestati nel complesso furono una quarantina.
Di questa vicenda Nino Manca – dirigente della Cgil e consigliere regionale del
Pci per quattro legislature, anch’egli recluso con Enrico – ci ha lasciato una
stimolante e vivace ricostruzione in un volume che ha come sfondo la vita
economica e sociale della nostra città, tormentata in quel frangente da una
fame nera. Si tenga presente che la Concentrazione antifascista, di cui faceva
parte Mario Berlinguer, padre di Enrico, sconfessò clamorosamente quella
sommossa. Per il giovane, già comunista, fu un duro colpo. Nei moti del 1944
ebbe un certo ruolo anche il Partito comunista di Sardegna (su cui ha scritto
un saggio Paolo Pisu).
Dopo l’uscita dal carcere, egli si recò col padre a Salerno, dove
conobbe Palmiro Togliatti; nell’autunno di quello stesso anno entrò a far parte
della segreteria nazionale giovanile del Partito. Ebbe così inizio una carriera
che sostanzialmente non incontrò ostacoli. Dal 1950 al 1952 fu presidente della
Federazione mondiale della gioventù democratica.
Il golpe in Cile, il compromesso storico e l’austerità. Dopo il golpe sanguinoso guidato dal generale Augusto Pinochet Ugarte, comparvero su “Rinascita” tre articoli di Berlinguer, dal titolo Riflessioni sui fatti del Cile: ebbene, leggendo quelle pagine è facile rilevare l’assenza completa del benché minimo sforzo per esaminare la cruciale esperienza guidata da Salvador Allende che sicuramente non era un estremista, mentre più radicali erano, com’è noto, le posizioni del leader socialista Carlos Altamirano. Per non parlare delle responsabilità della Dc cilena, su cui l’intero Pci volle stendere un velo di silenzio. L’attenzione di Berlinguer era infatti rivolta totalmente alla situazione italiana. Egli era convito che, qualora le forze di sinistra, democratiche e laiche avessero raggiunto il 51%, una contrapposizione frontale con il restante 49%, la mancanza di un più ampio consenso non avrebbero consentito un progresso economico e sociale del paese (Fiori, p. 235).
Sui governi di “solidarietà nazionale”, presieduti da Giulio Andreotti
(1976-79), il giudizio di Fiori è abbastanza severo: “Il Pci, fatto nascere il
governo Andreotti, si conforma a un atteggiamento non solo di lealtà ma di
copertura persino esagerata delle scelte governative. Probabilmente
l’astensione era una scelta obbligata. Ad alcuni appare senza misura un
allineamento sino alla confusione con i democristiani, dannoso l’abbandono di
una funzione di vigilanza e di pressione, goffo alle volte il modo di stare nel
nuovo campo”. Lo stesso Fiori riporta un altrettanto critico giudizio del
giornalista Tommaso Giglio: nel 1976-79, il Pci “difende tutto quello che fa il
governo con più accanimento dei giornali democristiani, quasi fosse cosa loro […]
gli attacchi al governo vengono respinti come attacchi al Partito comunista” (v.
p. 292). Un atteggiamento che abbiamo avuto modo di constatare e verificare
anche in Sardegna.
Fiori inoltre riporta il pensiero di Alberto Asor Rosa, intellettuale
con un ruolo rilevante nella cultura italiana di sinistra, secondo il quale il
compromesso storico, da lui valutato positivamente, era non un piano o un
accorgimento tattico, ma una strategia per una “trasformazione storica” (p. 253).
Ma com’era possibile, ci chiediamo, avviare col “divo Giulio” una prospettiva
strategica di cambiamento?
Lo stesso Fiori rimarca i limiti teorici di Berlinguer laddove sostiene che, più in generale, l’idea di introdurre “elementi di socialismo” nella dimensione italiana non era supportata da un’analisi appena articolata.
Il
15 gennaio 1977, nel corso di un convegno con gli intellettuali al teatro
Eliseo di Roma, il segretario del Partito interviene sul tema dell’austerità, “parola
forse impropria certo non felice”: così scrive Fiori (pp. 298-299 della
biografia). Com’è possibile, infatti, dare significato alternativo a un
termine, a un concetto che evoca inevitabilmente sacrifici soprattutto per i
ceti più deboli? Certo, Berlinguer era mosso non da un’idea ascetica, ma dalla
giusta esigenza di una critica al consumismo; tuttavia, per costruire un’alternativa
credibile, non si può prendere il lessico dell’avversario neanche in prestito.
Le
posizioni sull’Urss e sul Pcus.
Per quanto riguarda la valutazione dell’esperienza dell’Urss, Berlinguer si
attirò indubbiamente l’ostilità di Leonid Breznev e dei dirigenti comunisti
russi: forse, dietro l’incidente automobilistico in cui venne coinvolto durante
un viaggio in Bulgaria, c’era l’obiettivo di eliminarlo fisicamente (ma Fiori,
alle pp. 233-234, non lo crede). Oggi, rileggendo quelle sue determinate
posizioni, emergono vari limiti. Berlinguer – quando e laddove si riferisce ad
un esaurimento della spinta rivoluzionaria nell’Urss e nel Partito sovietico –
trascura le scansioni che distinguono la frattura dell’Ottobre 1917, il governo
di Lenin, quello di Stalin, con i suoi crimini orrendi, denunciati da Nikita
Kruscev, i periodi successivi. Qual era, in buona sostanza, la vera natura del
“socialismo realizzato” in Unione sovietica? Quali erano i detentori effettivi
del potere? Quella guidata da Breznev e da altri leaders si poteva considerare
una società effettivamente socialista? Domande, si badi bene, rimaste senza
risposta non solo da parte del segretario generale del Pci, ma anche dell’intera
sinistra, compresa quella più radicale (a suo tempo “Nuova sinistra”). Soggetti
non in grado o privi della volontà di spiegare com’è stata possibile una
transizione che ha permesso agli ex direttori delle fabbriche sovietiche di
diventare gli oligarchi di oggi. Per non parlare del mostruoso connubio fra il
Partito comunista cinese e l’evoluzione / involuzione del sistema economico del
paese asiatico: Forbes fornisce un elenco di dieci miliardari cinesi.
La questione sarda. Infine, non si manca certo di rispetto a Berlinguer se si afferma che egli – preso anche dalle urgenze dei problemi politici e istituzionali di carattere generale – non diede un contributo teorico significativo all’analisi della questione sarda. D’altra parte, nell’isola l’Intesa autonomistica fece scadere di molto il livello del dibattito sia all’interno del Pci che in tutta la sinistra. Il Mezzogiorno venne configurato come un calderone in cui scomparivano o perdevano consistenza quei tratti specifici di Sardegna, Napoletano e Sicilia, distinti così accuratamente da Antonio Gramsci. Rimangono ancor oggi assai evidenti: le differenze fra le dinamiche demografiche dei tre contesti; la sottolineatura, da parte di Gramsci, della ben maggiore forza contrattuale dei ceti dirigenti siciliani rispetto a quelli sardi; le differenze riguardanti la proprietà terriera e il ruolo degli agrari in questi territori, fattori che hanno lasciato profonde sedimentazioni anche nella realtà odierna.
Sappiamo
bene che Gramsci, nel carteggio con Emilio Lussu (estate del 1926), si pose il
problema di una questione nazionale – in senso sardo – e fu ben lungi dal trascurare
il problema della lingua. Dagli anni Settanta in poi fu invece drastico il
rigetto del Pci isolano verso le battaglie per il riconoscimento legislativo e
l’introduzione del bilinguismo giuridico. Ben poche le eccezioni, dovute a
singoli esponenti del partito come Umberto Cardia, personalità di grande rigore
che, fra l’altro, partecipò alle discussioni da cui nacque l’idea di Sa die de sa Sardigna: egli peraltro proponeva non una giornata ma una Chida sarda, cioè una settimana sarda da tenersi annualmente
con incontri, dibattiti e manifestazioni.
Conclusioni. In definitiva, per rendere fecondo il dibattito politico in Sardegna, si rende indispensabile andare oltre le affabulazioni apologetiche su questa o quella personalità. Berlinguer sarebbe stato il primo a non gradirle. Si tratta invece di affrontare i drammatici problemi dell’oggi: il rischio di un suicidio demografico della società isolana, i collassi climatici, la siccità, la necessità di dare avvio ad una riconversione economica e produttiva di tipo ecocompatibile, l’immediato ricorso a eolico e fotovoltaico in chiave antimonopolistica – per evitare che nuovi Rovelli assoggettino la nostra terra – il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del Popolo sardo.
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